Esaminò il resto della stanza per accertarsi di essere solo, quindi tornò a guardare in direzione del letto.

La trapunta era spiegazzata.

Si passò una mano sulla nuca, girando la testa per alleviare l'irrigidimento dei muscoli, poi riportò la propria attenzione sul giaciglio scomposto.

Non notò nulla di strano, eppure qualcosa non andava.

Osservò la coperta come se si aspettasse di vederla muovere. Il che, ovviamente, non accadde.

Ma perché era così riluttante all'idea di tornare a letto? Comportati assennatamente, si disse. Sdraiati e pensa a qualcosa di bello.

Era stanco, molto, molto stanco, ma una parte di lui era estremamente all'erta. Di sicuro qualcosa non andava, ma che fosse dannato se sapeva che cosa. Avanzò cauto, come un cacciatore si avvicinerebbe a una tigre abbattuta, consapevole di avere di fronte un corpo senza vita, ma per nulla disposto a correre rischi.

Completamente nudo, rimase in piedi accanto al letto, infine afferrò un angolo della trapunta. Sostò per un attimo soltanto, quindi le diede uno strattone, scoprendo metà del materasso.

Provò l'impulso di urlare, ma non riuscì a far funzionare le parti che glielo avrebbero consentito. Ebbe voglia di arretrare, ma anche quelle parti non gli obbedirono. L'unico frammento rimasto operante si rivelò la vescica: per fortuna fu solo un breve schizzo di urina a bagnargli la coscia, più che altro una specie di emissione notturna.

Poté soltanto fissare. E fissare, e fissare.

Erano piccoli, eppure piuttosto voluminosi, i corpicini bulbosi coperti di pelo e apparentemente troppo pesanti per le zampette sottili. Per lo più neri, possedevano però una sfumatura rosso scuro a un'estremità, come se un liquido interno premesse per venire espulso. Si presentavano sotto una gran varietà di forme, alcuni lunghi come bruchi (al pari dei vermi, però, questi esemplari erano in massima parte privi di pelo), altri rotondi ed energici, altri ancora delle dimensioni di minuscole larve, brulicanti in branchi. L'unica cosa che avevano in comune era l'aspetto rigonfio. Satollo, si potrebbe definire.

E Creed aveva già stabilito il motivo prima di guardarsi e notare la miriade di punture e di tracce di sangue che gli coprivano il corpo.

Queste indaffarate creature avevano banchettato su di lui mentre dormiva. Erano obese (nel loro modo ridotto) del suo sangue.

Urlò di repulsione e paura.

Arretrò vacillando verso la porta, senza mai staccare gli occhi dagli esseri ripugnanti e detestabili che gli avevano invaso il letto a centinaia, brulicando in un caos di direzioni sulle lenzuola chiazzate di rosso come se fossero state cosparse di inchiostro.

Armeggiò con la maniglia dietro di sé, incontrando notevoli difficoltà a girarla, ma risoluto a non voltare le spalle a quei parassiti gonfi di sangue. Solo quando fu riuscito ad aprire il battente osò distogliere lo sguardo e precipitarsi in corridoio, sbattendolo con forza una volta all'esterno. Per parecchi secondi rimase aggrappato alla maniglia, accertandosi irrazionalmente che quegli orrori non lo seguissero.

La sua idea successiva (forse più razionale) fu quella di correre dabbasso, afferrare un cappotto e uscire di casa. Ma quando guardò giù, in direzione del portoncino d'ingresso, vide qualcuno, qualcuno che si celava nell'ombra, qualcuno il cui cranio aguzzo e calvo brillava alla debole luce proveniente dalla cucina al piano superiore.

La testa simile a un teschio si mosse, inclinandosi all'indietro in modo che chiunque si trovasse là nel buio potesse guardare su, verso Creed. In quel viso mortalmente scarno (e ora familiare) gli occhi erano tanto grandi da apparire quasi rotondi. Nella penombra, i due denti appuntiti risultavano offuscati.

Joe svenne.

 

11

 

Si mosse. Poi rabbrividì.

Aveva il ventre caldo, ma il resto del corpo congelato. Non possedeva piedi: se n'erano andati. Un altro brivido, no, qualcosa di più violento: questa volta si trattava di un sussulto. Creed gemette e si rannicchiò attorno al punto caldo sul proprio stomaco. Infine si girò su se stesso.

Un lamento stridulo e una frenetica agitazione contro il suo petto gli fecero riacquistare lucidità. Balzò indietro mentre la gatta fuggiva a precipizio da quello che era stato un comodo nido in grembo al padrone. Grin saltò sul tavolo e si voltò a fissare con astio l'uomo nudo che stava ora sospingendosi contro la parete del corridoio, un'espressione stravolta sul viso.

Joe ci mise qualche istante a mettere a fuoco la stanza. Fissò senza capire il felino sul tavolo, poi abbassò lo sguardo sulle proprie gambe nude con la medesima aria attonita. I suoi piedi erano totalmente insensibili per il freddo, ma perlomeno li aveva ancora.

Cominciarono a tornargli in mente gli avvenimenti di quella notte, semplici frammenti, come in un trailer malamente montato per un film dell'orrore (di serie B, oltretutto). Un rapido esame delle proprie parti intime gli provocò un certo sollievo. Ma che diavolo stava facendo lì in corridoio? Si concentrò intensamente per riportare un po' di ordine nel guazzabuglio di immagini e si pentì immediatamente dello sforzo quando si rammentò quelle... quelle... cose con cui aveva diviso il letto. Mio Dio, avevano bevuto il suo sangue! Creed si trascinò in piedi quasi intendesse rendersi meno accessibile.

Un'ulteriore ispezione del proprio corpo contraddisse quel ricordo: la sua pelle non mostrava alcun segno, fatta eccezione per un paio di graffi inferti dalla gatta schiacciata. Toccò con molta esitazione la maniglia della camera da letto e gli ci volle tutto il suo coraggio per girarla; spinse la porta di qualche centimetro, rimase in ascolto, sbirciò all'interno e infine la spalancò. Guardò in direzione del letto.

La trapunta era spinta verso il fondo e il lenzuolo spiegazzato che copriva il materasso sembrava sufficientemente intonso. Joe si avventurò oltre la soglia, esaminando bene il pavimento prima di ogni passo, avvertendo a malapena il tappeto sotto i piedi congelati. Per quanto poteva vedere, il letto era davvero sgombro; quando scostò ancor più la trapunta, sempre con notevole esitazione, stabilì che nulla si celava fra le sue pieghe.

La tolse dal letto e se la avvolse attorno alle spalle, quindi rimase lì in piedi, solo e spaventato, chiedendosi che cosa gli stesse succedendo.

In precedenza aveva già avuto incubi, un sacco — Cristo, tutti ne soffrivano prima o poi — ma niente di così concreto, niente di tanto spaventoso! Fu nuovamente assalito dai brividi. Solo la morsa del gelo lo costrinse all'azione, altrimenti avrebbe probabilmente continuato a rimuginare sull'incubo per il resto della mattina. Si diresse alla cassettiera e ne estrasse un paio di calze.

Seduto sull'angolo del letto, le infilò, poi prese un paio di pantaloni da una sedia lì accanto, la trapunta sempre attorno alle spalle come uno scialle. I jeans arrivavano soltanto a metà gamba quando il pensiero di quelle creature pelose e gonfie di sangue che si affaccendavano sul suo corpo nudo lo colpì con tremenda chiarezza: il suo stomaco si contrasse, sussultò e decise di sbarazzarsi del proprio contenuto.

Vacillò fino al bagno, tirandosi su i calzoni lungo il percorso mentre lo scialle cadeva a terra, ormai trascurata ogni pretesa di dignità e padronanza di sé. Arrivò in tempo, ma si bloccò con la gola e le guance piene a fissare il water, con il coperchio chiuso e un atteggiamento passivo.

Joe si spostò di lato e vomitò nella vasca, crollando sulle ginocchia alla seconda ondata e appoggiando il petto al bordo. Era sgradevole, anzi, disgustoso, ma per niente al mondo avrebbe sollevato il coperchio della tazza, incubo o meno: non si sentiva ancora pronto per quello.

La nausea passò, assieme a tutto quanto aveva mangiato nell'ultimo mese, gli parve, lasciandogli lo stomaco dolorante e vuoto. Ancora appoggiato al bordo con la testa e il collo penzoloni all'interno come se stesse aspettando l'abbattersi dell'ascia, tastò alla cieca in cerca dei rubinetti. Le sue dita tremanti ne trovarono uno e lo aprirono al massimo, quindi si spostarono sul secondo; agitò l'acqua con una mano, indirizzando i filamenti e i grumi vischiosi verso lo scarico. Per quanto repellente, quell'attività dimostrò di possedere un certo valore terapeutico.

Si fermò soltanto quando la sua mente prese infine atto di ciò che i suoi occhi avevano scorto pochi attimi prima sul pavimento del corridoio.

Strisciò verso la porta, lasciando con la mano impronte umide sulle piastrelle. Eccola là, esageratamente bianca sulla moquette grigia, vicino alla sommità delle scale. Rimase a osservarla per qualche tempo.

Si drizzò lentamente, tirò su i jeans e se li abbottonò in vita, si passò il dorso della mano sulla bocca, quindi avanzò sostenendosi alla balaustra.

Non raccolse subito la busta, bensì si attardò a domandarsi come fosse arrivata fino a lì. Si irrigidì ricordandosi che cosa aveva visto quella notte in fondo alle scale.

Il suo cervello andò in pezzi quando si raffigurò quella creatura mentre saliva verso di lui, deponendo la busta sul pavimento al suo fianco, oppure... oppure persino addosso a lui. Era forse stato lui stesso a farla cadere a terra risvegliandosi dall'incubo? Incubo? Qual era il confine fra sogno e realtà? Il suo corpo era intatto, nel letto non brulicava alcun essere peloso, eppure lì, proprio ai suoi piedi, giaceva la prova materiale della presenza di quella cosa! Creed cadde in ginocchio. Oh, Dio, Dio, era davvero tanto vulnerabile? Possibile che un estraneo fosse in grado di entrare e uscire dal suo territorio a proprio piacimento?

Toccò la busta come se si aspettasse una reazione. Non si verificò nulla (ma se i water riuscivano a farsi crescere i denti, tutto poteva accadere), quindi la raccolse e la tenne davanti agli occhi. Non era sigillata.

Con due dita ne estrasse il contenuto, un foglio di carta piegato a metà. Il messaggio, battuto a macchina a caratteri maiuscoli e su due righe ordinate, recitava:

 

CI PORTERAI LA PELLICOLA

NON NE PARLERAI CON NESSUNO

 

Tutto qui.

 

12

 

l'automobilista davanti a lui suppose erroneamente che lo spazio di parcheggio in procinto di venire liberato fosse suo: Creed la pensava diversamente. Spinse la jeep dietro il veicolo in uscita, fingendo di non avere notato il segnale lampeggiante dell'altra auto.

Il guidatore della macchina parcheggiata scosse la testa indispettito nel trovarsi costretto a incunearsi faticosamente aggirando la Suzuki, ma Joe ignorò l'ingiuria chiaramente leggibile sulle sue labbra nel momento in cui riuscì finalmente a districarsi; a marcia indietro, manovrò per evitare di urtare la Peugeot nello spazio contiguo. Nel frattempo, l'automobilista cui aveva rubato il posto dava sfogo al proprio risentimento strombazzando il clacson della Mercedes. Lui continuò a far finta di nulla finché la jeep non fu allineata correttamente.

Difficile da ignorare, invece, fu il viso terribilmente brutto (per l'esattezza, quanto se ne poteva distinguere in mezzo alla barba sporca e irsuta e ai capelli altrettanto sudici) che apparve al finestrino.

«Ci bado io, signore», esclamò una voce soffocata, malconcia come le fattezze dell'uomo. Occhi stanchi e iniettati di sangue lo osservarono al di là del vetro.

Il vecchio vagabondo agitò le braccia nel modo sbrigativo di un addetto aeroportuale intento a guidare gli spostamenti a terra di un 747. A quel punto, il signor Mercedes si era ormai allontanato in cerca di nuovi pascoli, non senza aver messo al corrente Creed di che fine avrebbe fatto se mai si fossero incontrati nuovamente.

Una volta spento il motore, Joe si massaggiò le tempie con le dita: né le chiassose espressioni di ostilità, né quel buffone lurido là fuori, tuttora gesticolante e schiamazzante istruzioni, avevano minimamente giovato al suo mal di testa. Era come se fosse in preda ai postumi di qualche sregolatezza, e non gliene sarebbe importato molto, se almeno fossero stati preceduti da momenti di piacere. Si chiese se la caduta dalle scale gli avesse provocato danni permanenti al cervello. No, non era possibile. Riusciva ancora a pensare, vedere, sentire gli odori. Nessuno dei suoi sensi era rimasto menomato, al contrario: sfortunatamente, stava vedendo troppo.

Si accorse che il vagabondo aveva cominciato a pulirgli il parabrezza con uno straccio macchiato di grasso quanto i suoi abiti, lasciandogli tracce unte sul vetro.

Socchiuse la portiera ed esclamò un «Fila via!» in tono deciso.

«Finisco in un minuto, signore», fu la risposta per nulla impermalita. «Sarà lucidissimo.»

Con un sospiro, lui si infilò una mano in tasca in cerca di una sigaretta. Se ne era arrotolate alcune prima di uscire di casa quella mattina, cercando nel lavoro una sorta di terapia mentre rimuginava sui brutti sogni e sul messaggio molto reale lasciatogli sulla moquette del corridoio. Purtroppo non era servito a molto: le sue dita incredibilmente goffe avevano prodotto sigarette deformi e malfatte. Avrebbe dovuto provvedere la sera prima, come d'abitudine, ma naturalmente anche allora era stato piuttosto scosso, se ricordava bene. Aveva avuto in proprio possesso una fotografia del sosia di una persona impiccata più di cinquant'anni or sono. Niente di particolarmente sconvolgente. Sarebbe potuto trattarsi di un parente (un figlio, un nipote), oppure semplicemente di un tizio dal viso molto somigliante. E con ciò?

Qualcuno voleva le foto e i negativi, ed era disposto a ricorrere a mezzi molto insoliti pur di procurarseli, ecco cosa.

Le stampe erano già sparite e, per quanto potesse sbagliarsi, la responsabile doveva essere Cally.

Dopo essersi acceso una sigaretta, Creed scese dalla jeep.

«La custodisco io, signore?» Gli occhi verdi e acquosi mostravano gioia alla prospettiva, mentre la mano sembrava pronta ad accettare qualche moneta.

«Ti ho detto di filare via.» Questa volta, il tono fu ancor meno amichevole.

Il vagabondo sputò un missile alquanto malsano sulla macchina posteggiata di fianco alla Suzuki, con minimo giovamento per la rilucente carrozzeria rossa.

«Comunque», si affrettò ad aggiungere Joe, frugandosi nelle tasche, «ti auguro una buona giornata.»

Diede una monetina al parcheggiatore permanente, sebbene abusivo, della piazza, lasciandogliela cadere sulla mano protesa per evitare ogni contatto diretto.

«Lei è un santo», esclamò il vecchio, benché il suo naturale buonumore fosse stato leggermente scalfito. Si portò un dito alla fronte in segno di saluto e a Creed non sfuggì la lieve ironia del gesto.

Era una bella giornata, fredda ma allietata dal sole, e Joe respirò a fondo attraversando Soho Square, per niente squallida a quell'ora del giorno, non fino a tarda notte, perlomeno, quando invece assumeva caratteristiche nettamente diverse.

Imboccata Dean Street, cominciò a esaminare i numeri civici, certo che il luogo da lui cercato si trovasse da quelle parti. Oltrepassò ristoranti, pub e uffici, come pure mucchi di spazzatura e scatoloni di cartone gettati negli androni e sul marciapiede; si fermò una volta raggiunto quello che sembrava un negozio piuttosto esclusivo, con l'enorme vetrina e il portoncino d'ingresso incorniciati di legno pregiato.

Al di là del vetro spiccava una scrivania tutta pelle e cromature, dietro cui sedeva l'addetta alla ricezione, dalla carnagione scura e il viso ben modellato. Al momento stava parlando in un elegante telefono rosso, perfettamente in tinta con il suo rossetto lucido, inconsapevole (o, in caso contràrio, fingendo di esserlo) dello spettatore dagli abiti trasandati. Distogliendo la propria attenzione, Creed lesse l'iscrizione in lettere dorate discretamente collocata nell'angolo inferiore della vetrina: Page Lidtrap.

Gettato il mozzicone sul selciato, spinse il battente e si avvicinò alla scrivania. La ragazza continuò a ignorarlo. Benché si sentisse un po' depresso, Joe fece in modo di godersi quella bellezza scura in attesa che la telefonata terminasse. I suoi capelli erano pettinati all'indietro e si innalzavano sulla cima della testa come un'erezione a trecce; lui si interrogò su come si potesse ottenere un simile effetto finché non si accorse che anche lei lo stava osservando.

La ragazza depose il ricevitore. «Posso esserle d'aiuto?» La sua voce era bella e cupa quanto il suo aspetto.

«Vorrei vedere Cally McNally.»

«È uno scherzo?»

«No, affatto. Lavora qui.»

«Deve aver sbagliato agenzia.»

La porta di ingresso si aprì per lasciar passare una bionda molto alta con una gonna corta che enfatizzava gambe la cui lunghezza non aveva davvero bisogno di venire sottolineata. Chiaramente una modella.

«Accomodati, Mandy. Sarò da te in un attimo», la invitò la segretaria prima di riportare su Creed lo sguardo glaciale.

«È davvero impiegata qui», insisté lui. «McNally, l'assistente di Mildrip.»

«Mildrip?»

Joe lanciò un'occhiata disperata alla vetrina. «Ah, Libprat.»

«Il signor Lidtrap? Mi dispiace, ma si sbaglia. Non esiste nessuna Cally... McNally?... in questo ufficio.» La sua voce era educata, ma lo sguardo gli stava suggerendo di sparire.

«Mi faccia parlare con Lidtrap.»

«Spiacente, ma senza un appuntamento...»

«È molto importante.»

La ragazza non fu per niente impressionata dal sorriso alla Rourke, ma del resto Creed era comprensibilmente ben al di sotto della forma abituale. «In questo momento il signor Lidtrap è estremamente occupato...» Di nuovo lasciò la frase in sospeso, quasi il rifiuto fosse implicito nel vuoto successivo.

«Ruberò solo due minuti del suo tempo, ecco tutto.» Ormai ridotto alla disperazione, Joe estrasse il tesserino stampa, tenendolo sollevato come un mandato d'arresto. Lei parve ancor meno colpita, ma a quel punto qualcuno emerse da una porta interna.

«Harry, Daniel è nel suo ufficio?» chiese la segretaria guardando l'uomo barbuto.

Questi si bloccò, strizzando l'occhio alla modella in attesa prima di rispondere. «È di sopra, nello studio di montaggio.» Esaminò Creed, che (come menzionato) non appariva nella forma migliore, con entusiasmo notevolmente minore. «Posso esserle d'aiuto?»

«L'altra sera lei si trovava alla consegna dei premi della Benson & Hedges», affermò lui, «in compagnia di una ragazza, Cally.»

Harry scosse la testa. «Non la ricordo affatto. Provi a parlare con Daniel.» Detto questo, spalancò la porta d'ingresso. «Suzi, sarò di ritorno verso le quattro», avvertì la segretaria prima di andarsene.

La ragazza prese nota su un'agenda, quindi scrollò le spalle a Joe, indicandogli con la penna una scala d'angolo. «Salga fino all'ultimo piano. Lo studio di montaggio si trova sulla sinistra. Avvertirò il signor Lidtrap del suo arrivo.»

Come la maggior parte degli edifici sulla Dean Street, la casa di produzione Page Lidtrap era lunga, stretta e alta. Una volta arrivato in cima, Creed aveva il fiato mozzo e le gambe doloranti. Il suo interlocutore, l'uomo troppo bello con i riccioli «naturali» che sarebbe dovuto essere il capo di Cally, sporse la testa sul pianerottolo. I suoi modi erano decisamente bruschi.

«Posso dedicarle mezzo minuto», esordì prima di svanire all'interno di una stanza.

«Grazie mille», borbottò Joe, arrancando faticosamente sull'ultimo gradino. Seguì Lidtrap nello studio.

Il locale era quasi interamente occupato da un ampio banco da lavoro e da una scrivania un poco più bassa, sovrastati da lunghe scaffalature zeppe di scatole argentate, ciascuna contrassegnata da una dicitura in pennarello. Il poco spazio alle pareti era stato riempito da manifesti, mentre in un angolo borbottava una piccola macchina per il caffè; la superficie del banco da lavoro stesso era invasa quasi interamente da un sincronizzatore d'immagini, nastri, bobine e attrezzature per il montaggio. Lidtrap, lo snello Adone dai capelli gialli in jeans stretti e camicia di tela bianca, si stava sporgendo su uno schermo collocato sulla scrivania e mormorava qualcosa a un montatore seduto lì accanto. La pellicola girò nella macchina finché il regista non esclamò in tono deciso «Taglia qui!»; solo allora si raddrizzò, voltandosi verso Creed con aria interrogativa.

Il nostro eroe era appoggiato allo stipite a riprendere fiato.

«Allora?» Lidtrap non era tipo da nascondere la propria impazienza.

«Ho bisogno...» pausa «...ho bisogno di parlare con Cally.»

Il regista lo guardò come se fosse pazzo. «Che cosa diavolo sta dicendo?»

«La ragazza che era con lei alla consegna dei premi. Ha dichiarato di lavorare per lei.»

«Davvero? E con che qualifica?»

«La sua assistente.»

Lidtrap sorrise gelido. «Si è fatto prendere in giro. Qui non c'è nessuno con quel nome.»

«Ma Cally era accanto a lei, avete chiacchierato.»

Pensieroso, l'altro si accigliò. «Sì, certo, ricordo di essere stato avvicinato da una ragazza piuttosto carina. Alta, snella, dai capelli biondo cenere.»

Joe assentì e prese di tasca una sigaretta.

«Non qui dentro, amico», lo ammonì Lidtrap.

Joe se la tolse dalle labbra e la rimise nella giacca.

«Non credo che quella ragazza mi abbia detto il suo nome, ma ritengo lavorasse per una grossa agenzia. Ha continuato a menzionare un importante progetto per un film di imminente realizzazione, altrimenti non avrei sprecato tempo con lei.»

Scommetto proprio di no, pensò Creed. «Cally ha dichiarato di collaborare con lei.»

Lidtrap parve perplesso. «Non capisco il perché. Di che si tratta, comunque, signor...»

«Creed.»

«Ah, certo. L'ho già vista in giro. Un fotografo, vero?» Il disprezzo trasparì dal tono, più che dall'espressione.

«Quella ragazza mi ha fornito un elenco dei suoi impegni per la settimana.» Armeggiò in una tasca in cerca del foglio. «Sta girando uno spot pubblicitario in uno zoo, non è così?»

«Uno zoo?» Il regista prese l'elenco, un misto di incredulità e divertimento sul viso.

«Con gli scimpanzè.»

«Scimpanzè.» Una constatazione pronunciata in tono piatto. «Amico mio, qualcuno le ha davvero giocato un brutto tiro.» Si accigliò leggendo il foglio. «Santo Dio, dovrei essere una specie di prodigio per sbrigare tutto questo lavoro in una settimana.»

«Credevo lei fosse una persona molto occupata.»

«Occupata, ma non masochista.»

«Quel foglio porta l'intestazione e l'indirizzo della sua casa di produzione.»

«Battuto a macchina, non stampato. Chiunque avrebbe potuto farlo.»

Joe stava cominciando a sentirsi un idiota. «Io, però, vi ho visti assieme alla consegna dei premi.»

«È vero, posso confermarle che ha parlato con me e il mio socio, ma ciò non significa che sia una di noi.» Con lo sguardo ancora su Creed, Lidtrap iniziò a voltarsi. «Se vuole scusarmi, adesso ho qualcosa di meglio da fare che non rispondere a domande su gente che non conosco neppure.»

Joe cominciò la lunga discesa al pianterreno.

 

Il suo umore non migliorò quando, tornato alla jeep, scoprì un'incrinatura sul parabrezza dalla parte del passeggero; qualcuno aveva scagliato un sasso o colpito il vetro con un oggetto piccolo e aguzzo. Allontanandosi, intravide il vagabondo che agitava un pugno nella sua direzione, ma non ebbe né l'energia né la voglia di inseguirlo.

«Dove accidenti sei stato tutta la mattina?» fu il benvenuto portogli da Freddy Squires negli uffici del Dispatch.

«Fred, quel tizio che hai pensato...»

«Per quanto riguarda la tua idea di telefonarmi nel cuore della... Cristo, ma che cosa ti è successo?»

«Eh?»

«Hai un aspetto terrificante. Che diavolo ti è capitato?»

«Una notte schifosa.»

«Anch'io, se per questo. Mi ci è voluta un'eternità per riprendere sonno dopo la tua maledetta chiamata. Se ti azzardi a giocarmi di nuovo uno scherzo simile, Joe, ti ritroverai così sprofondato nella merda da avere problemi di udito. Hai capito?»

Creed lasciò cadere a terra la sacca con le macchine fotografiche e prese una sedia. «Freddy, parlami del tizio che hanno impiccato.»

Il direttore afferrò pipa e fiammiferi, quindi studiò il suo interlocutore. Prima di accendere, scosse la testa quasi con tristezza. «Il tuo stato...»

«Freddy...»

Squires contemplò nuovamente Creed. «Perché ti interessa?»

Lui sospirò. «Penso, può darsi, è possibile che mi stia accadendo qualcosa. Ecco, qualcosa di strano.»

«Raccontami.»

NON NE PARLERAI CON NESSUNO

Le parole erano là, vividamente illuminate sullo schermo della sua fronte, in lettere maiuscole, differenti da quelle sul biglietto solo perché, in questo caso, erano bianche su fondo nero.

«Non ancora», rispose. «Tony, hai una sigaretta?» domandò a un giornalista seduto lì accanto.

«Vuoi scherzare», ribatté quello, smettendo di battere a macchina per depositare il mozzicone acceso nel portacenere.

Joe ne prese una delle proprie, spargendosi in grembo il tabacco che fuorusciva dalla cartina malamente arrotolata.

«Potrai anche trovarti nel bel mezzo di una situazione strana, figliolo», riprese Squires, «ma ho in serbo per te qualcosa di un po' più attuale di vecchi sosia. Ecco perché stamattina ho cercato di rintracciarti.»

Creed non mostrò un particolare interesse.

«Ricordi lo scandalo di Pamella Bordes alla Camera dei Comuni, qualche tempo fa?» proseguì il direttore. «La signorina, per così dire, 'esotica' impiegata come ricercatrice alle dipendenze di un parlamentare del partito conservatore? Le era stato fornito un lasciapassare speciale in modo che potesse entrare e uscire dalla sede del parlamento a proprio piacimento.» Squires sorrise al pensiero. «Poi si scoprì chi fossero alcuni dei suoi presunti 'clienti' e certi loro legami politici.»

Joe aveva già annuito, dato che rammentava perfettamente lo scandalo senza alcun bisogno che gli venissero elencati ulteriori dettagli.

«Bene, ne abbiamo portato alla luce un altro. Questa volta si tratta di un maschio, poco più di un ragazzo, ed è l'opposizione a trovarsi in grave imbarazzo. Vi è coinvolto un parlamentare laburista.»

Creed non riusciva ancora a sentirsi interessato. «Non ci vedo niente di eccezionale», commentò. E in effetti non si poteva dargli torto: parecchi cosiddetti ricercatori parlamentari non erano altro che l'amica (o l'amico) di qualche uomo politico, pagati con denaro pubblico per fornire al loro datore di lavoro cifre e dati riguardanti qualsiasi cosa, dal prezzo dei chiodi a Solihull alla spesa annuale dell'Unione Sovietica in macchinari agricoli. In realtà, questi cosiddetti assistenti si adoperano quel tanto che basta a legittimare la loro esistenza nei corridoi del potere, o meglio a far sì che la loro presenza non metta esageratamente in imbarazzo i rispettivi padroni. Vedete, il vero problema della Camera dei Comuni è che i politici, in virtù della loro natura incline all'autocompiacimento e alla gratificazione dei propri vezzi (con un paio di eccezioni, naturalmente), sono sempre stati vulnerabili agli scandali, rischiando invariabilmente il verificarsi di un effetto-domino nel momento in cui viene rivelata al pubblico la condotta scorretta di un singolo membro: fanne cadere uno e di sicuro crolleranno tutti gli altri. Soprattutto, fate attenzione a coloro che si esagitano in preda a un pio oltraggio davanti a simili accuse nei confronti dei colleghi, perché l'ipocrisia di un politico non conosce limiti (mai e poi mai sottovalutare l'ipocrisia di un uomo politico). Qui termina la lezione.

«Niente di insolito, ad ogni modo», rispose Squires al commento di Joe. «Questo ragazzino, però, si guadagnava da vivere vendendo la propria compagnia e uno dei suoi clienti più illustri, guarda caso, è...» A questo punto il direttore citò il nome di un attore teatrale irlandese il cui fervido appoggio all'IRA era ben noto presso i circoli governativi, ma non di pubblico dominio. Lo chiameremo O'Leary in mancanza di un nome migliore — o reale.

«Non imparano mai, vero?» Fu tutto ciò che Creed si sentì in grado di osservare. «Per una cosa del genere non hai bisogno di me. Puoi usare un qualunque membro del tuo staff.»

«Ci abbiamo già provato, ma O'Leary si è dato alla macchia e penso che tu sia l'unico capace di stanarlo.»

«Ma andiamo, Fred! Questo è giornalismo investigativo, non certo il mio campo.»

«Si tratta di rimestare nel torbido per ricavare una foto, e tu sei fra i migliori. Se volessi materiale scottante su mia moglie e il suo amante (ammesso che le potesse capitare una simile fortuna), mi rivolgerei a te per ottenere le prove fotografiche.»

«Grazie, ne sono lusingato. Esattamente, che cosa ti aspetti che faccia?»

«Controlla i ritrovi, i bar gay — li conosci tutti. Un'istantanea dell'attore assieme al ragazzo squillo ti procurerebbe un sacco di soldi extra, lo sai.»

«Persino loro non sarebbero così stupidi da farsi vedere assieme in un momento simile. Non esiste una sola speranza al mondo.»

«Joe, in quanto paparazzo ti trovi in una posizione privilegiata. Questo giornale ti fa guadagnare parecchi verdoni e, in cambio, talvolta ci aspettiamo di vederti eccellere. Piantala di darmi il tormento e vai a eccellere. Oh, tanto per aiutarti un pochino...» Infilò una mano in un cassetto ed estrasse un foglio ripiegato che consegnò a Creed.

Lui lo guardò con aria interrogativa.

«È un indirizzo», spiegò Squires. «Prendilo.»

Joe ubbidì. «L'impiccato, Freddy. Chi era?»

Il direttore si era già voltato verso il telefono, la mente occupata altrove. «Nicholas Mallik», disse componendo un numero. «La Bestia di Belgravia, come lo avevano definito. Giustiziato alla fine degli anni Trenta. Vai a controllare negli archivi. George, sono Fred. Che novità ci sono sulla storia di Kashoggi? Ho qui una splendida foto...»

Alzandosi in piedi, Creed notò una fra le tirapiedi di Antony Blythe avanzare verso di lui con una bottiglia di champagne. Prunella vestiva come una ragazza di buona famiglia ed era carina in un certo qual modo pallido e poco vistoso, benché la bocca piccola e sottile la facesse apparire più compita di quanto non fosse in realtà.

«Un regalo da parte dello stronzo», dichiarò, alzando la bottiglia come se fosse una specie di premio.

«Ci eravamo accordati su un Krug, non un Moet», si lagnò lui, accettando tuttavia l'omaggio.

«L'avresti avuto solo se la foto fosse stata pubblicata.»

«Vuoi prendermi in giro?» Joe afferrò una copia del Dispatch di quella mattina dalla scrivania di Squires, la sfogliò fino a pagina diciannove e la aprì. La foto era di dimensioni ragguardevoli, il suo nome compariva puntualmente, ma non ritraeva la duchessa di York chinata in avanti per salire in macchina; mostrava invece un gruppo di uomini in abito scuro intenti a rotolarsi sul marciapiede di fronte al Grosvenor Hotel, più che altro un groviglio di braccia e gambe, l'imponente stazza di Bluto confusa con quelle dei due addetti alla sicurezza che tentavano di immobilizzarlo sul selciato. La didascalia citava: una vera mischia reale.

Creed grugnì e guardò Prunella, che disse: «Mi dispiace». Poi lo fissò con aria curiosa, sbattendo le palpebre. «Hai un aspetto terribile. Sei stato coinvolto anche tu nella rissa?»

«No davvero. Perché Blythe non ha usato quella di Fergie? Era esattamente ciò che voleva, Cristo santo!»

«Ma questa era molto più divertente. Sarebbe potuta finire in prima pagina, se non fosse scoppiato lo scandalo del parlamentare e del ragazzo squillo. A proposito, Antony mi ha chiesto di scoprire se hai qualche foto di Jamie O'Leary. Al massimo dell'effeminatezza, sono le sue parole.»

«Ce ne sono alcune all'agenzia, non qui, ma si tratta di materiale vecchio, risalente al periodo scapestrato di O'Leary. In ogni caso, pare che il mio incarico odierno sia proprio quello di procurare qualcosa di nuovo.»

«Farai in modo che Antony dia un'occhiata per primo, vero?»

«Vada a farsi fottere. Questo è ben più di un semplice argomento per la colonna dei pettegolezzi.»

Prunella assunse un'espressione sconsolata. Senza alcun dubbio, sarebbe stata il capro espiatorio della furia di Blythe se questi non fosse riuscito ad aggiudicarsi lo scoop sull'attore. Dopotutto si trattava di spettacolo, politica e sesso, il tutto amalgamato in un unico, glorioso mucchio di spazzatura. Quale giornalista pettegolo avrebbe potuto chiedere di più?

«Sai che cosa facciamo?» dichiarò Joe, prendendola per un braccio e guidandola in un angolo appartato. «Ho bisogno di certe notizie dagli archivi, informazioni su un uomo di nome Mallik, Nicholas Mallik, impiccato...» lei sussultò «...oltre cinquant'anni fa per qualche turpe gesto. Scovale per me e io ti passerò i provini di quanto riesco a scattare su O'Leary prima che chiunque altro li veda. Se Blythe trova qualcosa di suo gradimento, potrà andare a discuterne con il responsabile della cronaca. Che ne dici?» Naturalmente non aveva la minima intenzione di offrire un'anteprima a Blythe, e chiunque conoscesse Creed e la reciproca disistima fra lui e il titolare della pagina mondana lo avrebbe capito subito. Prunella, però, non era particolarmente perspicace, né possedeva una mente tortuosa. Lui le sorrise con aria incoraggiante nonostante il sordo mal di testa.

«D'accordo», concluse la ragazza. «Me ne occuperò nell'intervallo di pranzo. Mallik, hai detto?»

Joe annuì. «Nicholas Mallik. Forse, più tardi, potremmo dividere lo champagne.»

«Sarebbe carino. Ripasserai di qui nel pomeriggio?»

«Mi farò vivo per telefono.» Si trattenne a stento dal metterle una mano sulle natiche: con questi tipi perbene non si poteva mai sapere, e non intendeva turbarla prima che gli avesse fatto il favore richiesto. Tra l'altro, la costante emicrania e il pensiero dei water mordaci avevano considerevolmente affievolito la sua libido. Di conseguenza, si limitò a osservarla allontanarsi, ogni impulso impuro meramente transitorio e derivato dall'abitudine più che dal desiderio.

Controllò nuovamente l'indirizzo fornitogli da Freddy Squires e gemette. Almeno un'ora di viaggio e senza dubbio un'attesa infinita.

«Vaffanculo», borbottò fra sé, prendendo la borsa con le macchine fotografiche.

 

13

 

ed eccovi Joe Creed impegnato in ciò che sa fare meglio: sgusciare furtivamente, non destare l'attenzione e aspettare. E aspettare, e aspettare. Che si tratti dei paraggi di un locale notturno, un ristorante, una casa privata o un albergo, lui è il Maestro dell'Attesa. Questo non significa affatto che gli piaccia, al contrario, lo detesta: è semplicemente l'attività in cui eccelle. Ancor più importante, possiede l'abilità di scattare in azione nel giro di un secondo, nonostante la letargia e l'irrigidimento che invariabilmente sopravvengono dopo la prima ora. Da un certo punto di vista, se avesse posseduto il necessario senso della disciplina sarebbe stato una sentinella perfetta. Difficile raffigurarselo con la divisa rossa e il copricapo nero di pelliccia, è vero, ma di sicuro si sarebbe messo istantaneamente all'erta nel preciso momento in cui un intruso avesse posto un piede dove non doveva. Il fatto che avrebbe probabilmente gettato a terra la pistola per scappare nella direzione opposta è tutt'altra faccenda: il nocciolo della questione è che si distingue in bravura nel trascorrere una quantità di tempo senza fare nulla, per poi diventare terribilmente attivo in un batter d'occhio.

Questa prerogativa, acquisita nel corso degli anni in qualità di paparazzo, gli tornò utile dopo aver rintracciato l'indirizzo fornitegli al giornale, aver compiuto una piccola ricognizione della zona immediatamente circostante ed essersi sistemato in attesa nella jeep, discretamente parcheggiata dietro una macchia d'alberi.

La prima ora trascorse con sufficiente lentezza, la seconda fu ancor più snervante, ma proprio al principio della terza si verificò un certo movimento nei dintorni dell'obiettivo.

Il luogo fatidico si trovava in uno di quei stretti viottoli che percorrono la campagna inglese, il genere di solito frequentato solo dai motociclisti che conoscono bene la zona o da chi si è perso dopo essere uscito dalle rotte più battute. Non troppo lontano da Londra, questo posto, ma ben oltre la periferia e nel folto di una lussureggiante vegetazione: un nido dal tetto di ardesia chiamato Rose Cottage, dal giardino un po' trascurato, la recinzione traballante e il cancelletto socchiuso. Nel complesso, piuttosto male in arnese.

Creed si era appena sporto in avanti, il naso quasi contro il parabrezza per sbirciare in un piccolo spazio fra gli alberi, quando vide aprirsi la porta del cottage. In un lampo fu fuori dalla jeep e immerso tra il fogliame, diretto verso il bersaglio; tra le mani stringeva una Nikon, mentre l'altra munita di pellicola a colori, gli pendeva dal collo.

Si fermò un attimo a osservare, spostando con cautela i rami: qualcuno era in piedi sulla soglia d'ingresso.

«Ragazzi!» sussurrò fra sé. Questa era fortuna al di là di ogni immaginazione. Poteva trattarsi soltanto di lui, il ragazzo squillo in persona! Gesù, era proprio così. Joe lo riconobbe dalla foto pubblicata quella mattina sul Dispatch: Kevin Plaskett, il ricercatore dalla faccia da bambino. Se non lo avesse visto con i propri occhi non ci avrebbe creduto! L'attore, O'Leary, era davvero meravigliosamente stupido! Ospitare il ragazzo (non sembrava più vecchio di venti, massimo ventidue anni) nel proprio nascondiglio (ormai) men che segreto! Tuttavia, la domanda cruciale, fondamentale, e Dio-mio-sii-gentile-fai-che-sia-così, era: si trovava lì anche O'Leary? Era possibile che l'attore fosse tanto idiota, con lo scandalo scoppiato quella mattina stessa? Forse non sapeva ancora di essere su tutti i giornali, magari non ascoltava la radio quando si chiudeva nel proprio affascinante ritiro. O forse era troppo arrogante per preoccuparsene. Non essendo tipo da riflettere a lungo sui piccoli misteri dell'esistenza, soprattutto se il lavoro lo attendeva, Creed controllò rapidamente la macchina fotografica. Per quanto fosse ansioso d'agire, però, si fermò a considerare le alternative.

Gli serviva lo scatto giusto al momento giusto. Una bella inquadratura del giovane Kevin da solo sarebbe andata bene, ma non avrebbe avuto molto significato, non sarebbe stata la foto. Al contrario, una con il «ricercatore» e l'attore sovversivo assieme avrebbe costituito un successo supremo. Ma O'Leary si trovava in quella casa? Poteva essere tanto pazzo?

Joe decise di correre il rischio. Sarebbe stato semplicissimo scattare una foto del giovanotto sulla soglia con lo zoom (rendendo così felice Freddy Squires), ma il nostro eroe voleva di più. Era un azzardo, ma se avesse vinto la scommessa, la foto sarebbe stata assolutamente inestimabile (per un giorno o due, perlomeno). Se l'attore si celava all'interno, lui voleva tirarlo fuori a ogni costo.

Si lasciò pendere sulla schiena la Nikon che portava appesa al collo, nascose l'altra nella capiente tasca del cappotto e si raddrizzò. Quindi, con una gran faccia di bronzo, avanzò verso il cancello.

«Salve», apostrofò l'allarmato cherubino, percorrendo disinvoltamente il viottolo d'accesso. «Temo di essermi smarrito e mi sto chiedendo se lei sia in grado di fornirmi qualche indicazione.»

L'altro arretrò nella penombra del portone.

«Stavo cercando di arrivare all'autostrada, ma ho perso l'orientamento fra questi sentieri di campagna», continuò lui senza dargli tregua. Il suo sorriso era ingenuo (a quella distanza).

Il giovane esitò, poi sporse la testa, mantenendo però i piedi saldamente all'interno.

Creed puntò un pollice alle proprie spalle, stando bene attento a non girare il busto. «Mi sono spinto fin laggiù, ma non ho saputo che strada prendere all'incrocio. Mi servirebbe una bussola, visto che la testa non sa dirmi la direzione giusta. Dove devo svoltare, a destra o a sinistra?»

Si arrestò a parecchi metri dalla porta, un invito implicito affinchè il ragazzo si spingesse all'esterno.

Stupidamente (o forse perché trovava Creed attraente, Dio sa se qualcuno non lo ritenesse tale) il «ricercatore» abboccò. In piena luce sembrava ancora più giovane, con i ricci tinti in una tonalità rossastra e le guance rosee.

«Non ne sono sicuro, ma posso scoprirlo.»

Si tratta forse di un caso sfortunato, ma certa gente in cui capita di imbattersi corrisponde perfettamente a uno stereotipo. La sua voce era morbida, benché non potesse essere definita femminile, e la sua camminata, se non esattamente ancheggiante, possedeva una specie di flessuosità felina. Si scostò dalla fronte un ricciolo inesistente.

Joe si fece ancora più attento, ove possibile: Plaskett aveva appena ammesso implicitamente di non essere solo in casa. Aggiustò la Nikon dentro la tasca come un pistolero allenterebbe l'arma nella fondina.

«Sarebbe splendido», affermò. «Sono in ritardo per un appuntamento e devo affrettarmi.»

Il cherubino si voltò verso l'ingresso. «Jay, mi serve il tuo aiuto per un attimo», chiamò.

Cadde una breve pausa di silenzio, interrotta da un possente ruggito.

«Maledetto stupido che non sei altro!»

Una figura furente seguì l'urlo furente.

O'Leary era un omone (torace ampio, barba nera e cattivo carattere) la cui sola voce trasudava virilità. I critici teatrali stimavano molto le sue doti di attore e gli ammiratori lo adoravano per la sua personalità oltraggiosa e incline agli eccessi (soprattutto alcolici). Si presentava al pubblico come un uomo schietto di origini popolari, il cui talento lo aveva però elevato al di sopra dei comuni mortali. Un simpatico casinista, in un certo qual modo simile a un giovane Richard Burton. Persino i suoi occasionali (e, superbo attore qual era, commoventi) appelli per un'Irlanda unita non nuocevano affatto alla sua immagine pubblica. Ciò che il pubblico ignorava, tuttavia, era la solidità del suo legame con l'esercito clandestino dell'IRA e la quantità di denaro che lui elargiva liberamente alla causa. Altrettanto poco nota agli ammiratori era la sessualità ambigua del loro idolo: andava a imperituro merito dei suoi addetti alle pubbliche relazioni, infatti, l'aver tenuto nascosto tanto a lungo il suo debole per i ragazzi, meglio se giovanissimi. In realtà, oggi come oggi, non aveva poi molta importanza la propensione sessuale di un personaggio dello spettacolo; il guaio era che lui sembrava così maledettamente mascolino. La delusione dei suoi adoratori, dobbiamo essere onesti, sarebbe stata immensa.

Dunque eccolo lì, questo gigante d'uomo tutto barba e temperamento collerico, uscire a precipizio dal cottage con uno sguardo omicida negli scuri occhi irlandesi. Persino un eroe si sarebbe lasciato intimidire, e Creed non lo era di certo.

In effetti, stava già arretrando lungo il viottolo quando O'Leary commise il primo errore. Invece di piombare direttamente sull'intruso, l'attore perse tempo ad afferrare il cherubino per le spalle e a ringhiargli «Torna dentro, razza di deficiente! Non hai capito chi è?»

Gli occhi del giovane Kevin si sbarrarono per la paura. «Io non...» cominciò a scusarsi prima che l'altro lo sospingesse in malo modo verso la porta.

Creed, il pistolero, era stato molto più rapido: quando l'attore si era scagliato contro l'amico, la macchina fotografica si trovava già fuori della fondina, scusate, della tasca. Tre foto erano ormai state scattate nel momento in cui O'Leary iniziò ad avanzare ruggendo «Dammi quel dannato arnese!»

Joe continuò a procedere a ritroso, scattando nel contempo senza curarsi di guardare nell'obiettivo. O'Leary gli era quasi addosso.

Ora di andarsene, concluse nell'attimo in cui Kevin scomparve all'interno della casa. Si voltò, correndo in direzione del cancelletto, mentre un rumore di passi (molto pesanti) risuonava alle sue spalle.

Ce l'aveva praticamente fatta quando si sentì trattenere per la gola; con uno squittio, si bloccò di colpo. Avrebbe potuto facilmente soccombere se l'autoconservazione non fosse stata uno dei suoi punti di forza (forse il più forte in assoluto): si dibatté finché la cinghia della macchina fotografica (O'Leary era riuscito ad acchiappare la Nikon che gli pendeva sulla schiena) non si spezzò, liberandolo.

Fu al di là del cancello in un soffio, una mano che, per puro istinto, armeggiava per richiuderlo dietro di sé. Il gigantesco attore, biascicando oscenità che neppure la sua splendida voce baritonale riusciva a rendere gloriose, commise il secondo errore decidendo di continuare l'inseguimento. Colpì con le gambe le sbarre di ferro, facendo scattare la serratura, inciampò e cadde sulla schiena, rimanendo ad agitarsi come una balena pelosa fuor d'acqua.

Creed sostò il tempo necessario per recuperare la macchina fotografica da terra, quindi saettò verso la jeep. Balzato all'interno e girata la chiave lasciata di proposito nell'accensione, si dileguò fra nuvole di polvere.

 

«Molto astuto, Freddy.»

Squires sollevò uno sguardo interrogativo dalla scrivania. «Sto per andarmene, Joe. Qualche problema?» Si alzò in piedi e si infilò la giacca che aveva lasciato per tutto il giorno appesa allo schienale della sedia e che appariva lisa e spiegazzata come il direttore stesso.

«Proprio nessuno. Mentre stiamo parlando, O'Leary e il suo amichetto sono in camera oscura per lo sviluppo.»

L'altro sogghignò. «Li hai sorpresi assieme.» Si trattava di una constatazione, del tutto priva di sorpresa.

«Già, praticamente mano nella mano. O'Leary non è stato contento.»

«Ci scommetto.» Squires si rimise a sedere. «Dunque, che cosa ti preoccupa, Joe?»

«Niente di grave. Mi sto solo chiedendo dove hai ottenuto quell'indirizzo.»

«Mi è stato passato dai nostri signori e padroni. Non ho fatto domande, preferivo non saperne niente. Sembra che tu stia un po' meglio.»

«Certo, mi sento meravigliosamente bene. Quindi, gli alti papaveri hanno usato il nostro proprietario, il quale ha usato il nostro nobile direttore, che a sua volta ha usato te, che ti sei servito di me.»

«Così vanno le cose. Insisto, qual è il problema?»

Creed si appollaiò su un angolo della scrivania e scosse la testa. «Sono solo stanco, Freddy, niente altro. Ho scattato delle belle foto, dunque non posso lamentarmi.» Sorrise per dimostrare la propria soddisfazione. «Ce l'avevano con O'Leary, vero? Volevano macchiare la sua immagine, screditarlo un po' agli occhi del pubblico.»

«Non è difficile da capire, giusto? Comunque, è più appropriato definirla un'opportunità colta al volo piuttosto che una strategia pianificata al tavolino. Dopo tutte le bastonate prese dai conservatori da parte delle opposizioni su quel ridicolo scandalo Bordes, qualche appartenente ai circoli governativi ha ovviamente intravisto l'occasione di prendersi una rivincita. Un esponente laburista coinvolto in una relazione omosessuale, più — e dimmi tu se è poco — le affiliazioni terroristiche. Era tutto lì pronto su un piatto d'argento.»

«Ma hanno deciso di spingersi un passo oltre.»

«Due piccioni con una fava, figliolo. Non solo potevano denunciare l'opposizione per una stupida illegalità che avrebbe potuto anche danneggiare la sicurezza nazionale, ma sono inoltre stati in grado di ledere la credibilità di Jamie O'Leary nel medesimo tempo. Come resistere a una prospettiva del genere?»

«Ma davvero funziona così? Voglio dire, solo perché O'Leary non è eterosessuale...»

Squires sogghignò di nuovo. «No, è molto più sottile. Gli ammiratori del nostro attore non scopriranno soltanto che il loro idolo è un finocchio, ma in capo a qualche giorno verranno anche a sapere che il suo coinvolgimento nella questione irlandese è ben più sinistro di quanto lui non volesse far credere. Forse sarebbe sopravvissuto alle rivelazioni in merito a uno fra i suoi 'vezzi', ma a tutti e due contemporaneamente? Comunque, hai perlomeno la soddisfazione di sapere che hanno scelto te per procurare le prove circa le sue abitudini sessuali. Si tratta di una specie di complimento.»

«Continuo a non capire. Perché solo io e non tutti gli altri fotografi?»

«Prova a pensarci. Se la stampa fosse calata sul posto a orde, O'Leary e il suo amichetto avrebbero tirato le tende e sarebbero rimasti nascosti a oltranza. Più probabilmente, però, all'arrivo delle prime macchine avrebbero finto che il cottage fosse vuoto. No, molto più saggio inviare un professionista da solo, fare apparire la scoperta come il frutto di un'ottima indagine privata.»

«Dovrei sentirmi onorato?»

«In effetti, sì. Non dirmi che con il passare degli anni stai acquisendo un po' di coscienza. Hai semplicemente fatto il tuo lavoro, hai mostrato com'è davvero la vita e non come la vogliono presentare coloro che nutrono interessi personali.»

«Merda, tutti hanno qualche interesse nascosto, tutti la vogliono presentare a modo loro.»

«Risparmiami l'indignazione, Joe. Entrambi ci dedichiamo a questo mestiere da troppo tempo per sciocchezze del genere.» Squires si alzò nuovamente in piedi. «Sai che facciamo? Ti permetterò di parlarmi della tua crisi di mezza età davanti a qualcosa di forte.»

Uno scotch con ghiaccio era esattamente ciò di cui Creed sentiva il bisogno, possibilmente seguito da un secondo e magari anche un terzo. Ciononostante, rifiutò. «Ho da fare, Freddy. Per caso Prunella ha lasciato qualcosa per me?»

«No, che io sappia. Sei sicuro di non voler cambiare idea? Un buon bicchiere ridarà vigore al tuo cinismo.»

«No, darò un'occhiata alle foto e me ne andrò. Pubblicherete il mio nome come il solito?» Si riferiva alla citazione del fotografo sotto l'immagine di O'Leary e Plaskett che senza dubbio sarebbe apparsa in prima pagina nell'edizione del giorno successivo.

«Naturalmente. A meno che tu non sia così irritato da non voler essere menzionato.»

«Ci vediamo domani, Freddy.» Creed prese la borsa e si diresse al laboratorio fotografico.

Alle sue spalle Squires esclamò: «Stai a casa stasera, Joe. Una volta tanto, lascia in pace le celebrità. Hai un aspetto migliore, ma non mi sembri ancora a posto».

I provini erano già pronti e Creed studiò ogni inquadratura con una lente d'ingrandimento, contrassegnando con una croce quelle che preferiva anche se la scelta finale sarebbe spettata al responsabile del settore fotografico o al suo vice. Era soddisfatto del risultato, ma non riusciva a racimolare l'entusiasmo necessario a sentirsi eccitato. Sei stanco, si disse. Stanco, confuso e, fu costretto ad ammetterlo, spaventato. In quelle condizioni risultava difficile provare grandi slanci. Quell'incarico lo aveva tenuto occupato, concentrando la sua mente su cose più terrene e (relativamente parlando) naturali. Ora, però, era calata la sera e lui doveva tornare a casa da solo, a riflettere sul biglietto, i negativi e l'opportunità di chiamare la polizia. Ma come cazzo spiegare l'accaduto ai ragazzi in divisa, che avrebbero probabilmente cominciato a cercar la droga nel momento in cui avesse raccontato loro che il water aveva tentato di mordergli l'uccello, che aveva visto Nosferatu e che era quasi stato mangiato vivo da esseri che non gli avevano lasciato la minima traccia sulla pelle? Gli avrebbero chiesto come si fosse procurato il bernoccolo sulla testa, costringendolo a confessare di essere caduto dalle scale e suggerendogli che un trauma poteva portare a ogni genere di complicazioni, allucinazioni comprese...

Si appoggiò alla parete del corridoio fuori del laboratorio fotografico. Una commozione cerebrale? Aveva forse scatenato qualche tipo di processo nella sua testa, qualcosa si stava gonfiando, raggrumando, premendo sulle cellule, toccando nervi, comprimendo tessuti? Oh, Dio, era forse così?

Gemette piano.

Un momento. Questo non spiegava il biglietto, né Cally. Entrambi erano assolutamente reali, non un prodotto della sua immaginazione. Ma lo erano davvero?

Infilò una mano in tasca e ne estrasse il foglio di carta.

 

CI PORTERAI LA PELLICOLA

NON NE PARLERAI CON NESSUNO

 

Sembrava sufficientemente reale.

Proprio come Cally. Aveva chiacchierato con lei, le aveva offerto del vino. Si era addirittura sentito attratto da lei, Cristo santo! Anche Dipstick — Lidtrap — se la ricordava, nonostante la ragazza non fosse affatto la sua assistente. Dunque non stai dando i numeri, Creed, non ancora, perlomeno.

Attraversata la sala cronaca, entrò nel reparto riservato alle pagine di costume; in un angolo all'estremità della stanza, quattro scrivanie addossate l'una all'altra formavano la redazione mondana, in quel momento assolutamente deserta. Joe ispezionò le superfici disordinate in cerca di una cartelletta o una busta in mezzo a quel caos di carte e ritagli.

«Stai cercando questa?»

Lui alzò lo sguardo su Antony Blythe, senza giacca ma comunque impeccabile nella camicia blu a righine con colletto bianco, cravatta di seta rosa e pantaloni grigi dalla piega inesorabile, in piedi sulla soglia del cubicolo di vetro che definiva ufficio. Reggeva fra le mani una busta di grosso formato.

«C'è scritto il mio nome?» chiese Creed.

Blythe si limitò ad agitarla nell'aria.

Joe si avvicinò e tentò di prenderla, ma il cronista se la strinse al petto con atteggiamento infantile.

«Pensavo dovessi consegnarmi certe foto», dichiarò in tono pungente.

«Non hanno ancora finito di svilupparle», mentì lui, afferrando la busta. «Quando saranno pronte, potrai andare a servirti.» Per quello che ne ricaverai, pensò: in nessun modo, infatti, la storia sarebbe stata assegnata alla sola colonna dei pettegolezzi. Si accorse che la busta era stata aperta. «Hai esaminato il contenuto?»

«Prunella è la mia assistente. Qualsiasi ricerca cui si dedichi passa prima dal mio ufficio.»

«Te l'ha data lei?»

«Lavora per me.»

Certo, così tu l'hai prelevata dalla sua scrivania e ci hai ficcato il naso anche se era destinata a me.

«Perché questo accanito interesse per quell'orribile Mallik?» Blythe non aveva senso del pudore.

Per Creed, però, era ormai troppo: girò sui tacchi, agitando una mano in direzione del cronista come per liquidarlo.

«Ti ho rivolto una domanda.»

«Non sono affari tuoi», rispose Joe, procedendo verso l'uscita.

«Sai bene che posso farli diventare tali», insistette Blythe alle sue spalle.

Il commento del fotografo non fu molto chiaro, ma l'altro ebbe la certezza che avesse a che spartire con la sua testa e un secchio di merda.

 

A questo punto Creed desiderava soltanto dormire.

Era stata una giornata intensa e la notte precedente aveva costituito un vero incubo, in senso letterale. Forse domani sarebbe andato dal medico, magari avrebbe addirittura preso un giorno di ferie per malattia. Né il giornale né l'agenzia fotografica lo possedevano; in definitiva, lui era il capo di se stesso, anche se aveva stipulato un contratto con entrambi. La cosa giusta da fare era dormire fino a eliminare ogni traccia di stanchezza e del dolore sordo alla testa. Accidenti, quand'era stata l'ultima volta in cui si era concesso una giornata di vacanza? Non riusciva nemmeno a ricordarselo. Appena a casa si sarebbe concesso qualcosa di forte e un lungo bagno, seguito da un secondo bicchiere. L'alcol lo avrebbe aiutato a dormire meglio.

Il traffico non era scarso neppure a quell'ora di sera, ma perlomeno si muoveva senza intoppi. Lui mantenne una velocità ridotta, troppo stanco per dar battaglia agli altri automobilisti.

Fermo a un semaforo, lanciò un'occhiata alla busta sul sedile accanto. Sarebbe stato meglio consegnare tutto alla polizia l'indomani e lasciare che ci pensassero loro. Era in possesso delle foto scattate al funerale, del biglietto minatorio e ora anche delle informazioni su Mallik scovate da Prunella. Che gli agenti ne traessero qualche conclusione: se lo avessero ritenuto in pericolo, allora sarebbe stato loro compito proteggerlo (ma lo avrebbero fatto, o meglio, ne sarebbero stati in grado?). Non doveva necessariamente menzionare le allucinazioni, e loro erano già a conoscenza dell'irruzione di un intruso; si sforzassero pure di stabilire il legame fra il pazzo al funerale e l'uomo impiccato tanti anni fa.

In pochi minuti fu davanti a casa. Parcheggiò la jeep nel garage e chiuse accuratamente a chiave ogni serratura del pianterreno, quindi, giunto ai piedi delle scale, sostò a chiedersi perché sul pianerottolo ci fosse la luce accesa.

Creed armeggiò alla cieca con il chiavistello del portoncino d'ingresso alle proprie spalle mentre cominciava a risuonare un rumore di passi in cima alle scale.

 

14

 

«ciao, papà.»

La mano di Joe rimase inchiodata al chiavistello. «Ohhh...» fu tutto quanto riuscì a dire.

Suo figlio, piccolo ma massiccio, scese un gradino, il viso in ombra.

«Sam... Sammy?»

Nessuna risposta.

Creed mosse qualche passo malfermo. «Cosa...» la rabbia iniziò a trasparire «...cosa c... diavolo stai facendo qui?»

Il piccolo tirò su con il naso.

«D'accordo, d'accordo, calmati.» Ancora tremante per lo choc, Joe cominciò a salire le scale, le braccia protese per tranquillizzare il bambino prima che si aprissero le dighe. Sammy rimase a guardarlo, le spalle incurvate; indossava la divisa della scuola.

Creed si fermò sul terzultimo scalino, quando si trovarono a faccia a faccia. «Che succede, Sammy?» domandò con tutta la gentilezza che riuscì a racimolare, trattenendosi dall'afferrarlo per le spalle e inveire per averlo spaventato a morte.

«Lei non mi vuole», fu la spiegazione, più petulante che dispiaciuta.

«Chi? La mamma? Cristo, ma certo che ti vuole. La mamma ti adora.»

«Non è vero!» Il piccolo si voltò di scatto e scomparve a grandi passi in cucina.

«Ehi, aspetta un mom...» Joe si passò una mano fra i capelli già scompigliati. Questo era proprio ciò di cui sentiva il bisogno. Di solito Evelyn e Samuel si alleavano contro di lui — Dio solo sapeva quanto veleno quella donna gli avesse fatto inghiottire nel corso degli anni — ma ora sembrava che i ranghi si fossero spezzati. E adesso che cosa doveva farsene del bambino?

«Sammy...» Seguì il figlio in cucina e lo trovò seduto al tavolo, intento a ingozzarsi con una fetta di pane spalmato di zucchero e marmellata. «Guarda che in casa esistono anche i piatti.»

Il bambino lo osservò accigliato, continuando a masticare.

«La mamma sarà terribilmente preoccupata. Sa che sei venuto qui?»

Samuel annuì, poi si leccò la marmellata da un dito.

«Le hai telefonato?»

Un cenno di diniego seguito da un singhiozzo soffocato.

«E allora come fa a saperlo?» Joe si sedette di fronte al piccolo. «Ti dispiacerebbe smettere per un minuto di mangiare e rispondermi? Come può sapere che sei qui?»

«Mi ha mandato lei.»

Creed si sporse in avanti. «Ti ha mandato lei?» gli fece eco.

Il ragazzino annuì nuovamente.

«Sam, ti do cinque secondi per spiegarti. Se non mi metti subito al corrente della situazione, ti troverai in guai seri.»

Una pausa di riflessione per quattro dei cinque secondi concessi, infine: «La mamma mi ha messo in un taxi e ha detto all'autista dove portarmi. Mi ha anche dato la chiave per entrare nel caso tu fossi stato fuori».

«Lei ha le chiavi?»

Il bambino scosse la testa. «No, le ho io.» Infilò una mano in tasca e depose il mazzo sul tavolo.

Quella stronza ingegnosa, pensò Creed. Da quanto tempo le possedeva? Un ulteriore motivo per cambiare le serrature. «Non ti credo, Sammy. Non ti avrebbe mai mandato da me.»

Con una scrollata di spalle, lui riprese a mangiare.

«Guarda che sto per telefonarle.»

Nessuna reazione.

«D'accordo, te la sei voluta.» Alzatosi, andò all'apparecchio e compose il numero.

«Pronto?»

«Evelyn, sono Joe.»

All'altro capo della linea, la voce si incupì. «Ti stai godendo tuo figlio? Finalmente capisci che cosa sono costretta a sopportare?»

«Ma che cosa succede, Evelyn? Sei stata tu a mandarlo?»

«Certo. Sei suo padre, non è vero? Forse sarai contento di assumerti le tue responsabilità, una volta tanto.»

«Sai bene che non è così semplice...»

«Pensi che in tutti questi anni per me sia stato facile? Allevare quel moccioso da sola, facendogli da madre, padre e Dio sa che altro, insegnandogli quello che dovrebbe insegnargli un padre, stabilendo le regole quando si comporta male — cioè quasi sempre — nutrendolo, vestendolo e coccolandolo. Riducendomi in frantumi per quell'ingrato, quel piccolo... piccolo...» Uno scoppio di lacrime. «Tu non sai che cos'è stato, non puoi averne la minima idea. Mentre tu ti divertivi, io sono stata costretta a lavorare, preoccuparmi e prendermi cura di ogni cosa da sola...»

«Evelyn...»

«E a te è mai importato qualcosa, hai mai fatto niente per lui? Beh, ora ne ho avuto abbastanza, e sarai tu a provare che cosa vuoi dire per un po', no, non per un po', ma per sempre, razza di...»

«Evelyn!»

Lo sfogo s'interruppe per un attimo. Quando l'ex moglie riprese a parlare, la sua voce era gelida, senza la minima traccia di lacrime. «È il tuo turno, Joe. È venuta l'ora che tu faccia il tuo dovere di padre. Prova a vedere se ti piace per qualche giorno.»

«Qualche giorno? Sai benissimo che non posso. Cristo, il lavoro mi tiene occupato a tutte le ore. Inoltre, voglio spiegarti una cosa: in questo periodo, adesso, non è davvero il caso che lo tenga con me.»

«Per te non esiste il momento adatto. Mi dispiace, ma dovrai cavartela.»

«Ascolta, Evelyn», in tono carezzevole, «scambia due parole con Sammy. Sta già sentendo la tua mancanza.» Guardò il figlio, occupatissimo a spargere zucchero su un'altra fetta di pane e marmellata. «È molto sconvolto, Evelyn.»

«Quel piccolo stronzo!»

«Ehi, andiamo! Che cos'ha fatto per ridurti così?»

«Prova a chiederglielo! Domandalo a quel ladro di tuo figlio.»

«Ha rubato qualcosa?»

«Chiediglielo! Soldi dalla mia borsetta e dai suoi compagni di scuola. Lo sapevi che è anche un prepotente? Ha preso — non rubato, preso — denaro e dolci dai bambini più piccoli. Oggi sono stata convocata dal direttore per sentirmi dire che mio figlio — tuo figlio — è un ladro e un bullo, e che se non avesse cambiato atteggiamento al più presto, sarebbero stati costretti a espellerlo. Riesci a immaginare come mi sono sentita? E lo sai che scusa ha addotto Samuel quando l'ho riportato a casa? Quando gli ho chiesto perché avesse commesso azioni così orribili? A quel punto, naturalmente, mi ero ormai resa conto di ciò che già sospettavo, ossia che da mesi lui prelevava soldi dalla mia borsetta. Comunque, sai che scusa mi ha raccontato?»

«No, non lo so.»

«Proprio nessuna! Non ti fa venire voglia di andare a nasconderti per la vergogna, razza di bastardo?»

«Io?»

«Tu. Sei tu il padre, e Dio sa se non si vede! Beh, è ora che tu gli insegni un po' di disciplina. Vediamo come riesci a cavartela.»

«Ti ho appena spiegato che non posso...»

«Maledizione, non hai scelta!»

La comunicazione fu interrotta. Creed fissò il ricevitore, poi il figlio. «La mamma sta già sentendo la tua mancanza», dichiarò.

La marmellata attorno alla bocca del bambino sembrava un grande sorriso gioioso, ma il suo sguardo era rimasto tetro. Con aria stanca, Creed si avvicinò al tavolo. «Coraggio, prendiamoci qualcosa da bere, poi parleremo. Preferisci latte, limonata o succo d'arancia?»

«Diet Pepsi.»

«Ti darò la limonata. Ti spiace se io bevo qualcosa di più forte?»

«Whisky? La mamma dice che lo bevi sempre.» Il bambino parve sinceramente interessato.

«Non sempre, Sam, ma stasera penso di averne bisogno. Vuoi che ti prepari qualcosa di decente da mangiare? Fagioli o...»

«Bastoncini di pesce e purè di patate.»

«Beh, penso di aver finito i bastoncini di pesce e credo — ma posso controllare — di aver terminato anche le patate. Che ne dici di un hamburger? Posso fare una scappata qui all'angolo a prenderli per tutti e due. Ti comprerò un frullato.»

«Non ho il permesso di berlo.»

«Hai solo dieci anni, Cristo santo! Alla tua età è normale goderti certe cose.»

«La mamma dice che devo stare a dieta.»

«D'accordo, non è giusto esagerare con le cose buone, ma stasera faremo un'eccezione. Sam, i tuoi compagni di scuola ti prendono in giro?»

Il piccolo guardò la fetta di pane come se avesse scoperto qualcosa di interessante immerso nella marmellata. Se anche fosse stato così, venne divorato in un attimo.

Creed osservò il figlio con un sentimento pericolosamente vicino alla compassione. Da quando Sammy aveva compiuto sei anni, fra loro due si era aperta un'incrinatura; non che prima il legame fosse poi magnifico in termini di rapporto padre-figlio. Evelyn aveva ragione: lui era sempre stato troppo occupato con un lavoro dall'orario irregolare per poter svolgere efficacemente il proprio ruolo paterno. In particolare, aveva negato al bambino le ore, persino i minuti (sono tutti fondamentali) dedicati al semplice rendersi disponibile, sia che si tratti di giocare, raccontare favole, insegnare o discutere. Questo era sempre stato il loro maggiore problema. Trovare tempo per Samuel non si era mai rivelato facile, ma, molto peggio, quando il tempo c'era, nel caso di Joe la soglia della noia risultava molto, molto bassa. Giocare con il figlio andava bene per periodi brevi, diciamo per una diecina di minuti, dopo di che la sua attenzione cominciava invariabilmente a vagare e di colpo gli venivano in mente cose «importanti» cui dedicarsi: in altre parole, la sua pazienza terminava. È un problema tipico degli egoisti. Per essere onesti nei confronti del padre, però, nemmeno il figlio era esattamente una fonte di gioia.

Samuel era già sovrappeso a due anni, e non esisteva altro modo di descriverlo se non obeso. Il suo viso, sovrastato da una zazzera di riccioli scuri, sarebbe stato quasi carino se le guance e la fronte troppo grasse non avessero infossato gli occhi a tal punto da farlo apparire perennemente accigliato. Voi potreste anche osservare che il bambino non ne aveva la minima colpa, soprattutto se i genitori lo viziavano con il cibo, ma Sammy possedeva in effetti la tendenza (e la furbizia) a creare il chiasso più spaventoso se aveva fame e non gli veniva immediatamente procurato da mangiare. Gravata dalle difficoltà di un matrimonio già traballante, Evelyn si sentiva incline ad accontentarlo piuttosto che sopportare i suoi assordanti capricci; come se non bastasse, l'amore in precedenza provato per il marito veniva sempre più indirizzato sul figlio (e infatti Creed si era infine accorto che i due avevano formato una specie di tacita alleanza contro di lui). E Samuel non era affatto uno stupido: sin da piccolo si era dimostrato abilissimo nell'usare l'amore materno per schivare l'ira paterna. La finale e irrevocabile rottura del matrimonio non aveva per nulla giovato alla personalità del bambino, che, naturalmente, aveva abbondantemente approfittato dei sensi di colpa dei genitori. Di conseguenza, Creed non era rimasto sorpreso nell'apprendere che il figlio si era trasformato in un ladro e in un prepotente, perché nelle rare giornate che riuscivano a trascorrere insieme lo aveva trovato non solo scontroso (a meno che tutto non funzionasse assolutamente a modo suo), ma anche un po' infido e maledettamente viziato. Per essere sinceri (un'ammissione terribile per un padre), lui riteneva il proprio figlio piuttosto detestabile.

Ora guardò Samuel, che, una volta precisato quanto sopra, restava tuttavia un bambino di dieci anni, e avvertì un poco familiare nodo alla gola: poteva anche essere sovrappeso, un cocco di mamma (benché non in quel preciso momento), un carattere problematico, ma era pur sempre suo figlio!

Creed inghiottì a vuoto. «Ascolta, perché non rimani con me per un paio di giorni? Lascia perdere la scuola, tanto sarà lì ad aspettarti quando torni. Ti piacciono i film dell'orrore? Potresti guardare le mie cassette mentre sono fuori per lavoro. Forse, ecco, forse potresti venire in giro con me, giusto per avere occasione di vedere che cosa fa per vivere il tuo vecchio. Che ne pensi?»

«Fumi la marianna?»

«Marijuana? Cristo, no. Perché me lo chiedi?»

«La mamma dice che lo fai.»

E che altro ti ha raccontato? «Senti, Sammy, la mamma e io non andiamo d'accordo, come ben sai. Ecco perché non siamo più sposati. Di tanto in tanto, quindi, può anche darsi che lei ti parli di me in un modo non necessariamente vero solo per vendetta nei miei confronti, capisci? Le donne sono fatte così.»

Il piccolo assentì, ma non parve convinto. «Posso avere un hamburger gigante?»

«Certo, e una doppia porzione di patate fritte. Che frullato preferisci? Fragola, banana...»

«Kiwi.»

«Aggiudicato. Mettiti comodo davanti alla televisione, sarò di ritorno in dieci minuti.»

«Papà?»

«Sì?»

«Non intendevo rubare. Ecco: è andata davvero così, ma non volevo farlo.» Sembrava tanto indifeso, un bambino di dieci anni con l'uniforme della scuola, i capelli scompigliati, un sorriso alla marmellata e lo sguardo triste, un ragazzino sovrappeso appena trasferito da un genitore all'altro e, al momento, indesiderato da entrambi. Joe avrebbe potuto vedere se stesso una ventina di anni prima, fatta eccezione per i problemi di peso e il fatto che, nel suo caso, l'abbandono era stato più radicale e, infine, permanente.

Aggirato il tavolo, si avvicinò al figlio e lo prese fra le braccia. Sammy oppose resistenza solo per un attimo.

 

Si affrettò lungo le strade in penombra, illuminate soltanto dalla luna, con il contenitore degli hamburger e il frullato di fragola («Kiwi? Che cos'è? Non ne abbiamo.») stretti al petto come un dono prezioso, quasi fosse destinato a un principe. Beh, Sammy non era esattamente un principino, ma pur sempre suo figlio, e aveva fame. Anche Creed aveva voglia di mangiare ed era rimasto sorpreso nel rendersi conto di aver digiunato per tutto il giorno. Improvvisamente si era accorto di essere affamato e di non aver voglia di accontentarsi di cibo tiepido. Di qui la fretta.

Earl's Court, il suo quartiere, era una zona piena di animazione fino a tarda notte, ma le vie laterali rappresentavano una realtà diversa: piene di edifici eleganti, piazzette alberate, alberghi e pensioncine, erano contemporaneamente male in arnese ed esclusive, un paradosso non infrequente nella grande città. Erano anche molto tranquille e poco illuminate.

L'attenzione di Creed era tanto incentrata sul problema di che cosa fare con il figlio finché Evelyn non si fosse ripresa dall'improvviso attacco di fobia per i bambini da impedirgli di notare la figura celata in un androne poco più avanti. Solo quando un grugnito di gola scaturì dall'oscurità si paralizzò sui propri passi, quasi accartocciando il recipiente di cartone per la violenza della stretta. La figura si rivelò, benché non completamente, quasi fosse assicurata alle ombre da un cordone ombelicale.

«Unnnnioete.» Un braccio si sporse verso il terrorizzato Creed. «Unnnaioeteco.» La voce suonava stranamente strangolata, come se fra la gola e la bocca si stesse svolgendo una lotta strenua per formare le parole. Quando finalmente il vecchio barbone riuscì a pronunciare «Un paio di monete, amico» Joe era ormai scomparso da un pezzo.

In effetti, non smise di correre finché non fu al sicuro nel proprio vicolo, per poi proseguire a passo di marcia fino al portone di casa. Una volta dentro, la serratura chiusa a chiave, si appoggiò alla parete sforzandosi di calmarsi. Dal piano superiore proveniva della musica smorzata.

Appoggiato il cartone malconcio sull'ultimo gradino, si piegò quasi in due, una mano sul fianco e l'altra sulla ringhiera, succhiando aria al pari di un atleta dopo una maratona. Non posso permettere che Sammy mi veda in questo stato, non voglio spaventarlo. Perché proprio adesso, perché quella stronza glielo aveva scaricato proprio ora? Maledizione, aveva già abbastanza di cui preoccuparsi senza dover essere costretto a badare anche a Sam.

Che cosa gli aveva gridato quel tipo? Qualcosa di brutto, di insultante, ne era certo. La barba e i capelli scompigliati, i vestiti luridi e puzzolenti: non si era imbattuto nel medesimo uomo quella mattina? Il vecchio vagabondo in Soho Square, quello che gli aveva con ogni probabilità incrinato il parabrezza della jeep, non era forse la stessa persona? No, non era assolutamente possibile, stava diventando paranoico, nelle strade di Londra esistevano centinaia, no, migliaia, di vecchi mendicanti. Addirittura milioni. E si assomigliavano tutti. Era semplicemente assurdo pensare che si fosse trattato della medesima persona. Del tutto pazzesco.

Aveva perfettamente ragione, naturalmente (una sfortunata coincidenza, dato il suo spaventoso stato d'ansia), ma non riusciva a sentirsi completamente sicuro e la sua ragionevole spiegazione non fu in grado di dissipare i timori non poi tanto irrazionali.

«Papà?»

Lui alzò lo sguardo e scorse Sammy in cima alle scale.

«Mi hai portato l'hamburger gigante?»

 

* * *

 

Quando si sedettero a mangiare, Creed aveva ormai perso l'appetito, ma nulla andò sprecato: Sammy fece in modo di spazzare via tutto ciò che il padre non era riuscito a inghiottire. Joe cominciò a capire perché Evelyn avesse imposto una dieta.

Il risucchio provocato dal bambino per prosciugare ogni singola goccia di frullato con la cannuccia iniziò a ledere i nervi già fragili del fotografo. «Penso sia finito, Sammy», lo avvertì.

Dopo qualche ulteriore gorgoglio il piccolo smise. «Mentre eri fuori ti hanno telefonato», dichiarò dopo aver leccato la cannuccia per tutta la sua lunghezza.

Creed si rese conto di aver dimenticato di attivare la segreteria prima di uscire quella mattina. Del resto, chi avrebbe potuto biasimarlo? riflette cupamente. «Ti sei fatto lasciare un messaggio?» domandò.

«Due. Sono arrivate due chiamate. Da ragazze.»

«Un giorno imparerai a convivere con loro.» O forse no, si disse. «E allora? Cosa mi devi riferire?»

Il bambino si concentrò nella difficile operazione di leccare l'interno del bicchiere di carta fino dove possibile.

Joe mantenne un tono di voce pacato. «Adesso basta, devi essere sul punto di scoppiare.»

L'espressione del figlio gli assicurò che si stava sbagliando di grosso. «Una ragazza...» fece una smorfia «.. .ha detto qualcosa a proposito di champagne. Mi sono dimenticato il suo nome.»

«Prunella?»

«Credo di sì. Qualcosa di caramelloso, comunque. L'altra non ha fatto il suo nome, mi ha chiesto chi ero. Le ho spiegato che saresti tornato presto.»

«Come si chiamava, Sammy?»

«Te l'ho detto, non lo so. Ha sostenuto che avrebbe ritelefonato, credo.»

Joe si mise a riflettere. Che fosse proprio lei, Cally? Avrebbe potuto trattarsi di una qualsiasi fra le ragazze che conosceva, però. «Ti ha detto quando avrebbe richiamato?»

Il piccolo scosse il capo. «Più tardi, penso.»

In effetti il telefono squillò di lì a poco ed era davvero Cally.

«Sam», Creed, una mano sul microfono, chiamò il figlio, in soggiorno davanti al televisiore. «Adesso preparati per andare a letto. Per stanotte dormirai nel mio.» Si accostò nuovamente il ricevitore all'orecchio e abbassò la voce, assumendo un tono duro. «A che diavolo di gioco stai giocando? Chi sei? Non ti chiami Cally, vero?»

«Invece sì, ma questo non ha nessuna importanza. Devi ascoltarmi.»

«Va bene, ma il tuo cognome non è McNally, oppure mi sbaglio?»

«Si dà il caso che mi chiami proprio così. Vuoi ascoltarmi, per favore? Sei in un mare di guai.»

«No, sei tu quella che si trova nei guai.»

«Oh, santo cielo! Ascolta, devi consegnargli la pellicola, o le pellicole, se ne hai usata più di una. Foto, negativi, tutto quanto.»

«Consegnarli a chi? Chi li vuole? Quello scherzo di natura che è penetrato qui l'altra notte? E anche ieri, Cristo!»

«Non importa chi sia. Limitati a dargli il materiale. Parlo sul serio, correrai un tremendo pericolo se non lo farai.»

Quest'ultima dichiarazione preoccupò Creed considerevolmente. Al momento, tuttavia, prevalse uno scoppio d'ira. «Ha qualcosa a che spartire con Nicholas Mallik, vero?» Si trattava di un vecchio trucco giornalistico: butta là un nome e aspetta la reazione.

In questo caso, la reazione fu il silenzio.

«Sei ancora lì? Avevo ragione, non è così? Questo Mallik c'entra in qualche modo.»

Attese ancora, infine la udì mormorare: «Dannato stupido che non sei altro, non potevi lasciar perdere?»

Ora fu Joe a rimanere muto.

Dopo alcuni secondi tormentosamente lunghi, lei riprese: «Per piacere, fai come ti ho detto. Forse non è ancora troppo tardi».

«Potremmo anche concludere un patto.» Creed si concesse un sorriso, per quanto cupo. Se non poteva vendere a un giornale le foto del pervertito, perlomeno esisteva un altro modo per ricavarne qualche soldo.

«Quale?» La voce della ragazza era gelida.

«Dal momento che sembri attribuire un grande valore a quelle immagini, non vedo perché non fartele pagare.»

«Creed, non provarci neppure. Non ne vale la pena, credimi. Cerca solo di restarne fuori. Consegnaci stampe e negativi e dimentica tutta questa storia.»

A lui piacque il nervosismo che traspariva nelle sue parole. Sentì crescere dentro di sé una certa sensazione di potere. «Due, anzi, tre bigliettoni è tutto ciò che chiedo.»

«Non essere ridicolo!»

«Due e mezzo e l'affare è fatto. Probabilmente valgono parecchio di più, vista la briga che vi siete presi per ottenerle. Potrei anche convincere il mio giornale che meritano un'attenzione speciale e una gratifica per me. Chissà che cosa sarebbe in grado di scovare una buona squadra di giornalisti.»

«Joe...»

Ah, siamo di nuovo ai nomi di battesimo, vero? Ormai la ragazza era davvero ansiosa. «Questi sono gli accordi, Cally, se ti chiami così. Vi darò tutto ciò che possiedo su questo pazzo che ama dedicarsi a gesti sgradevoli nei cimiteri e la cosa sarà finita qui. Mi dimenticherò di averlo visto e fotografato. Arriverò al punto di cancellare dalla mia mente persino te.» Non poté trattenersi dall'aggiungere, più per abitudine che altro: «Se tu lo desideri, perlomeno».

«Razza di idiota! Puoi portarmi il materiale stanotte?»

«Certo, se siamo d'accordo sui termini dello scambio. Perché non vieni tu a prenderlo?»

«No, meglio incontrarci in campo neutro.»

«Per esempio?»

«In un parco. Kensington Gardens. Non è lontano da casa tua.»

«Stai scherzando? A quest'ora di sera? Sarà chiuso.»

«Tanto meglio. Sai dove si trova lo stagno rotondo?»

«Ti ripeto che sarà chiuso.»

«Entrare è facile. Vuoi i soldi, vero?» Lei interpretò (correttamente) il suo silenzio come un sicuro assenso. «Allora, sai dov'è lo stagno?»

«Sì, di fronte a Kensington Palace.» Non era soddisfatto e non sapeva se accettare.

«Lì nei pressi c'è un piccolo palco per la banda. Non ti può sfuggire.»

«Al buio?»

«Guarda fuori della finestra — c'è una luna splendida. Ci vediamo nel parco tra un'ora?»

«Non so...»

«Devi fidarti di me. Te lo garantisco, è la tua unica via d'uscita.»

«Ma di che cosa stai parlando? Devo intenderla come una minaccia?»

«Santo cielo, no. Che tu ci creda o meno, sto solo cercando di aiutarti. Fatti trovare là, Creed.» Detto questo, riappese.

Fatti trovare là. Ma certo, per finire con le gambe spezzate. O peggio. Depose il ricevitore e si grattò il mento. In fin dei conti, che cosa potevano fargli? Ucciderlo? Per qualche fotografia? No, la sua immaginazione stava correndo troppo. Lo avevano spaventato un paio di volte, ma questo era tutto. Nessun ricorso alla violenza. Si toccò il rigonfiamento sulla fronte: un incidente, solo colpa sua. Lo avevano indotto a vedere cose impossibili — in che modo, solo Dio lo sapeva — ma non gli era stato fatto alcun male. Allucinazioni, ecco tutto, niente di peggio di un brutto viaggio.

Un momento. Un momento... Allucinazioni. La notte degli esseri che succhiavano sangue e dal water dentato Cally era stata a casa sua. Ecco come doveva essere andata! Cristo, sì. In qualche modo era riuscita a versargli qualcosa nel bicchiere. Che cosa aveva bevuto l'altra sera? Caffè, brandy? In entrambi i casi, lei avrebbe potuto metterci qualcosa. Ma il sapore non sarebbe risultato strano? Nel caso del brandy, probabilmente no. In ogni caso, avrebbe potuto servirsi di una sostanza insapore. Un acido, forse? Era molto plausibile, certo...

Poi si ricordò quel bizzarro, illogico movimento della terra attorno alla tomba di Lily Neverless. Quella specie di ondulazione.

Un'illusione ottica, proprio come il tremolio della superficie stradale in una giornata torrida. Quella mattina, però, era stata gelida. Si era comunque trattato di un'illusione. Datti una regolata, Creed. Troppi vecchi film dell'orrore per troppi anni. Evidentemente, gli si erano insinuati in testa e l'avevano eletta a domicilio permanente. Era destino che, prima o poi, sortissero qualche effetto.

Ancora assorto in riflessioni venate di spacconeria, entrò in soggiorno e trovò Sammy davanti alla televisione.

«Coraggio, Sam», sbottò in tono non proprio paziente, «è ora di andare a letto. Puoi fare a meno di lavarti, se preferisci, ma muoviti. La mamma ti ha dato un pigiama? D'accordo, dormi con la maglietta, e domani ti compreremo qualcosa per la notte. Sbrigati.» Il bambino si diresse con riluttanza alla porta, senza staccare lo sguardo dallo schermo. Joe si accorse che stava guardando una delle sue videocassette: Il pizzicatore, nientemeno. «Puoi vedere il resto domani, va bene? Ascolta, forse tra poco dovrò uscire. Ti disturba rimanere da solo? Non rimarrò via a lungo.» Dannazione, aveva a che fare con dei vecchi. Tutti e due (il tizio del cimitero e il mostriciattolo calvo) davano l'impressione di poter rimanere stecchiti per un peto improvviso. Cosa diavolo avrebbero potuto fargli? Ucciderlo a occhiatacce?»

Sammy si fermò sulla soglia e scrollò le spalle. «Non importa», dichiarò.

«Beh, se non vuoi, posso anche evitare...»

Il piccolo fece nuovamente spallucce, poi scomparve nel corridoio. Joe udì la porta del bagno aprirsi e chiudersi. «Fra un minuto sarò da te ad augurarti la buonanotte», gridò. Subito dopo spense il videoregistratore e si trasferì in cucina.

Seduto al tavolo, aprì la busta lasciatagli da Prunella al giornale mentre Grin lo osservava dalla sedia di fronte.

 

15

 

mentre camminava lungo la Bayswater Road sembrava abbastanza noncurante, ma, dentro di sé, Creed era un fascio di nervi. Parte di quello stato derivava dall'eccitazione professionale, un'altra parte (forse la più consistente) dalla paura e l'ultima porzione aveva a che spartire con la curiosità. Si attardò a guardarsi attorno: il traffico si era momentaneamente arrestato al semaforo in fondo alla strada, troppo lontano perché gli occupanti delle auto potessero notare la figura solitaria in piedi accanto alla recinzione di ferro sulla parte nord del parco. Joe aveva lasciato la jeep in una stradina nelle vicinanze.

«Ora o mai più», mormorò sottovoce. Gli ci erano voluti quindici minuti buoni per ritrovarsi in un attimo di pausa fra veicoli e pedoni, persino a quell'ora di sera, di conseguenza non poteva permettersi ulteriori esitazioni. In un paio di secondi fu a cavalcioni delle sbarre, dove rimase brevemente in equilibrio prima di balzare nell'oscurità sottostante.

Atterrò pesantemente, ma anni di salti in territorio proibito gli avevano insegnato il trucco di afflosciare le gambe e di rotolare in avanti su una spalla. Si spinse velocemente contro un grosso cespuglio e sostò per accertarsi di non essere stato scorto; con il fiato mozzo, immaginò se stesso come un fuggitivo in uno di quei vecchi film di guerra sui campi di prigionia.

La fantasia svanì di colpo quando si ricordò il motivo per cui si trovava lì.

Con ogni probabilità si era imbattuto in qualcosa di veramente grosso, la resurrezione di una storia che aveva comportato sesso, scandalo, ossessione, sospetto e, alla fine, mulilazione e omicidio. Roba succulenta.

Prunella aveva fatto un buon lavoro: dentro la busta, lui aveva trovato una serie di fotocopie di alcuni vecchi articoli che, all'epoca, erano finiti in prima pagina. Gli editoriali e le colonne trasudavano indignazione e oltraggio, un ovvio riflesso delle opinioni del pubblico.

A quanto pareva, Nicholas Mallik era stato una specie di figura enigmatica che, per quanto in generale sconosciuta al vasto pubblico, si muoveva nelle più alte sfere sociali: esistevano foto (sfortunatamente assai sbiadite in fotocopia) che lo ritraevano assieme a membri del governo, industriali, un notevole numero di stelle del cinema e del teatro, più qualche occasionale esponente della gerarchia ecclesiastica. A giudicare dalle compagnie frequentate, la ricchezza di Mallik doveva esser stata considerevole, anche se dai ritagli non traspariva il minimo indizio sulla sua provenienza. Né, del resto, si sapeva molto delle origini di quell'uomo: una versione optava per l'Ungheria quale luogo di nascita, mentre un'altra favoriva la Russia, in quanto appariva ovvio (perlomeno al giornalista che aveva scritto il pezzo) come il nome Nicholas fosse una palese derivazione da Nikolai. Secondo alcuni, Mallik poteva essere la versione accorciata di una quantità di imprecisati cognomi stranieri. In tutti i casi, lui non aveva mai fornito informazioni in merito, il suo accento e i modi aristocratici, tuttavia, avevano continuato ad alimentare le speculazioni.

Le masse, però, non erano state eccitate da questo piccolo enigma: no, a conseguire il risultato avevano provveduto le scellerate attività del personaggio. La gran parte degli articoli su Mallik si riferivano a lui come a un collega o seguace di Aleister Crowley (colui, in seguito soprannominato «l'uomo più malvagio del mondo», il cui motto era «Fai ciò che vuoi dovrebbe essere l'unica legge»). Satanista, esperto in magia nera, ciarlatano, dedito alle droghe, donnaiolo e pervertito, Crowley sembrava essere un individuo assolutamente spregevole, ma una compagnia di certo interessante. Entrambi, assieme al gruppo di Algernon Blackwood e al poeta W.B. Yeats, avevano appartenuto a una dubbia società mistica nota come l'Ordine dell'Alba Dorata, ma ne erano stati allontanati in seguito a un episodio oscuro verificatosi a Parigi.

Tutto questo costituiva solo lo sfondo. Il vero succo era il seguente: Nicholas Mallik, ribattezzato «Conte Nikolai» dalla stampa, era una specie di libertino (nonostante un aspetto piuttosto scarno e devastato che neppure le fotocopie riuscivano a nascondere) e la sua lista di «conquiste» (all'epoca, il Dispatch aveva evitato con massima cura di usare questo termine, ma qualsiasi stupido avrebbe potuto leggere fra le righe) si era dimostrata davvero notevole. Particolare interessante — e qui Creed aveva sentito crescere la propria eccitazione — Mallik era stato a lungo sentimentalmente legato a Lily Neverless, che allora era sposata a un uomo d'affari, Edgar Buchanan (ovvero il marito che, sul punto di portarla davanti ai giudici con l'accusa di calunnia, era morto per un improvviso infarto). Non esisteva alcun indizio che la relazione, durata per tutto l'arco degli anni Venti, fosse continuata nel decennio successivo.

Scorrendo i numerosi articoli a sensazione, Creed si era reso conto rapidamente che i fatti comprovati su Mallik e le sue attività erano in realtà pochissimi: la maggior parte dei giornalisti si diffondeva sui suoi rapporti con altri, specificamente gli alti dignitari di quel periodo, e preferiva suggerire piuttosto che dimostrare le sue numerose avventure con le mogli altrui. L'unico dato certo sul suo conto era la proprietà di un elegante edificio in Eaton Piace e di un'altra dimora, parimenti vasta ma assai meno esclusiva, in un quartiere a sud di Londra.

L'inizio della fine, per Mallik, era giunto sotto forma di un'avvenente ragazza dell'alta società (nubile, in questo caso) di nome Lavinia Nesbit che, al pari di molte altre prima di lei, aveva sviluppato una passione ossessiva per il «Conte». La differenza di età sembrava non aver costituito un impedimento per la giovane e, secondo le prove successivamente raccolte, non trascorse molto tempo prima che fosse completamente dominata dall'amato. La relazione era durata quasi tre mesi, dopo di che Lavinia era svanita senza lasciare tracce. Solo i caparbi sforzi del padre, un fabbricante di aerei alquanto facoltoso, avevano infine condotto alla scoperta del suo corpo.

Per peggiorare il dolore del patriarca, il cadavere era stato rinvenuto in diversi pezzi.

E ora arriva la parte veramente truce.

Il padre della ragazza, a sua volta fornito di amici potenti, era stato in grado di costringere, persuadere o svergognare (con ogni probabilità, tutte e tre) la polizia fino a ottenere una perquisizione delle due residenze di Mallik. Fu quella in periferia a fornire l'agghiacciante sorpresa, perché non solo gli agenti vi trovarono le varie parti della ragazza scomparsa (la testa era stata conservata in un secchio nella cantina), ma anche numerosi frammenti di altri corpi umani, la maggior parte dei quali appartenenti a bambini.

Benché il «Conte» non lo avesse mai ammesso, era stata ferma opinione dell'accusa che l'imputato manifestasse una propensione per il cannibalismo. Fu inoltre sostenuto che in quella casa si fossero svolti illegali e diabolici rituali, ma nessuno si era fatto avanti per confermare il fatto (per ovvie ragioni, Nicholas Mallik era divenuto persona non grata presso la sua vasta cerchia di «amici». Tutti avevano proclamato di conoscerlo soltanto superficialmente, se non addirittura per nulla) e l'accusato stesso si era rifiutato di parlare. Né un singolo membro del suo personale di servizio, che doveva senza dubbio essere stato numeroso data la vastità delle due case, si era presentato in qualità di testimone. Creed aveva dato per scontato che tutti si fossero dileguati non appena annusati i primi sentori di escrementi.

Leggendo fra le righe, gli era parso di capire che gran parte degli avvenimenti svoltisi nella residenza di periferia fossero stati avvolti dal silenzio e, proprio per questo, si era chiesto che altro fosse stato scoperto in quel macello. Il fatto che il ritrovamento di due frigoriferi pieni di feti fosse stato citato quasi a margine indicava che era stata applicata qualche sorta di censura editoriale; ma, in tal caso, perché? Per proteggere la sensibilità del pubblico da ulteriori ripugnanti rivelazioni? O per tutelare certi personaggi coinvolti nella storia?

Dato che Mallik non pronunciava una sola parola in propria difesa né forniva alcuna spiegazione, e poiché nessuna delle altre vittime poteva essere adeguatamente identificata (benché in quel periodo fossero stati chiusi i casi relativi alla scomparsa di numerosi bambini), il «Conte Nikolai» o, a quel punto, la «Bestia di Belgravia» fu impiccata solo per l'omicidio di Lavinia Nesbit.

Creed era rimasto perplesso circa il motivo per cui quei fatti spaventosi non erano ancora divenuti di dominio pubblico: dopotutto, assassini, ben più innocui se paragonati a Mallik erano entrati a far parte del folklore criminale. La risposta gli fu chiara quando controllò la data dell'esecuzione: 25 agosto 1939, la settimana precedente lo scoppio della seconda guerra mondiale. Lo sdegno era stato eclissato dall'enorme tragedia bellica. E naturalmente, dopo gli orrori di una devastazione globale in cui milioni e milioni di persone erano state uccise o avevano subito le torture e le privazioni più atroci, chi si sarebbe preoccupato di rammentare obbrobri risalenti a prima del conflitto, un periodo che doveva sembrare lontano anni luce alle masse sconvolte? La storia (e, a quanto pareva, il ricordo) erano stati cancellati da indegnità assai maggiori.

Forse era giunto il momento di far rivivere quegli eventi.

In quel momento, rannicchiato contro il cespuglio, Creed prese in esame le possibilità. Il folle fotografato al cimitero era senza dubbio un parente di Nicholas Mallik, visto che la loro somiglianzà risultava innegabile nonostante la cattiva qualità delle fotocopie. Il figlio? Un nipote? La stampa aveva attribuito al «Conte» una quarantina d'anni all'epoca dell'impiccagione, benché la sua data di nascita fosse sempre rimasta avvolta nel mistero. E quella brutta storia risaliva a cinquant'anni prima. Lo sconosciuto sulla tomba di Lily Neverless, a giudicare dai tratti profondamente segnati, doveva essere sulla settantina (Cristo, ma era possibile masturbarsi a quell'età? Joe prese mentalmente nota di scoprirlo in prima persona quando si fosse approssimato anche per lui quel momento), quindi sarebbe senz'altro potuto essere la progenie di quel mostro. I giornali non avevano fatto menzione di un figlio di Mallik, né di parenti, ma ciò non lo sorprendeva affatto, vista l'assoluta mancanza di informazioni sul personaggio.

Non era difficile comprendere il desiderio del pazzo di non veder risorgere il raccapricciante passato del padre (?), ma anche a costo di spingersi tanto oltre? Doveva esserci molto di più della semplice vergogna per la propria famiglia. E perché l'oltraggio sulla tomba? Il nodo del problema di Creed era il seguente: ricattare (e conseguire un rapido, consistente guadagno) oppure dedicarsi a una parentesi di giornalismo investigativo (che avrebbe potuto condurlo alla gloria e forse a ricavi anche maggiori)? In effetti, il quesito non si poneva neppure. Due piccioni con una fava, per quanto lo riguardava, erano sempre meglio di uno solo. Ciò che lui inseguiva era la fama unita al denaro.

Nascose la Nikon fra le pieghe del cappotto e si alzò in piedi, ripulendosi i jeans dal fango. In quel momento una sigaretta sarebbe stata fantastica.

Si guardò attorno: la luce argentea rendeva l'erba piatta e gli alberi neri; il buio dei cespugli avrebbe potuto nascondere qualsiasi cosa.

Alla sua destra sorgeva la zona riservata ai giochi per i bambini, un paesaggio surreale di intelaiature per arrampicarsi e di altalene immobili; a sinistra si stendeva una vasta striscia asfaltata, una vera e propria strada che conduceva verso l'ignoto. Scosse la testa disgustato per la sua stessa immaginazione sovraccarica.

In distanza scorse Kensington Palace, torreggiante nella notte come un'immensa tomba sinistra. Piantala, Creed. Cristo! Si stava spaventando a morte da solo. Per arrivare allo stagno rotondo doveva attraversare la strada e dirigersi a sud.

Per qualche istante rimase in dubbio se non gli convenisse battersela immediatamente dal parco — dopotutto, ignorava in che situazione stava per ficcarsi — ma, inevitabilmente, prevalse il richiamo dell'avidità e della gloria.

Arrancò verso il luogo dell'appuntamento tenendosi il più possibile al riparo degli alberi, costantemente all'erta in caso sopraggiungesse una pattuglia della polizia impegnata nel giro di ronda. In breve scorse la vasta superficie d'acqua, resa innaturalmente lucida dai raggi lunari.

Si rannicchiò a terra vedendo luci di fanali nei paraggi della Serpentina, il grande lago del parco; la possibilità di venire scoperto a quella distanza era nulla, ma lui preferì rimanere dove si trovava finché il bagliore non svanì del tutto. Cercò di ricordare dove fosse il posto di polizia interno, non perché avesse paura di essere individuato, bensì in quanto si sarebbe rivelato il luogo cui rivolgersi in caso di guai. Gemette nel rendersi conto di quanto fosse lontano: non solo, ma per di più al di là del lago. C'era sempre il ponte, d'accordo, ma anche quello era parecchio fuori mano.

Tanto non succederà niente, rassicurò se stesso. Incontrerai la ragazza, le strapperai qualcosa di nuovo sul folle necrofilo, poi rinnegherai il patto, sostenendo che consegnerai la pellicola solo al diretto interessato. Per aggiungere un incentivo, scatterai qualche foto di Cally in modo che anche lei venga materialmente compromessa. E se per caso avesse trovato ad attenderlo lo sconosciuto in persona, tanto meglio: trattare direttamente con il capo, ecco il punto. Porgli qualche domanda, quindi dirgli chiaro e tondo che lo aveva identificato come un discendente di Nicholas Mallik, nientemeno, e aspettare la sua reazione. Infine fotografarlo prima che avesse il tempo di coprirsi il viso. Ciò fatto, scappare come il fulmine. Quel tizio era molto vecchio e non lo avrebbe mai acchiappato. Certo. Giusto. Facilissimo.

Si sentì la gola secca.

Lo stagno, molto grande, gli parve particolarmente poco invitante quando raggiunse i suoi margini. Con quella luce, appariva più simile a una lastra di cemento che non a un rifugio per le anatre; sulla sua superficie non si notava neppure un'increspatura.

Lo sguardo di Joe si spostò in direzione di un'alta incastellatura, una struttura quasi del tutto invisibile contro l'oscurità degli alberi. Quello era il palco dove avrebbe dovuto incontrare Cally.

Infilò una mano in tasca e predispose l'interruttore che avrebbe attivato il flash della Nikon. Da che parte aggirare lo stagno? A destra o a sinistra? O doveva piuttosto fare dietrofront e incamminarsi verso il punto dal quale era penetrato? Poteva rivelarsi una scelta sensata, tutto considerato. Gli restava pur sempre l'alternativa di organizzare un secondo appuntamento da qualche altra parte, in mezzo alla gente, alle luci e ai rumori. Questo posto gli faceva venire i brividi.

Andiamo, Creed! Sei quasi arrivato. Se adesso te ne vai, rischi di annullare completamente l'accordo. Al telefono, Cally era parsa molto seria.

«Chi se ne fotte», borbottò fra sé, iniziando l'ultimo tratto lungo il ciglio dell'acqua.

Il palco sorgeva solitario in un vasto spiazzo erboso ed era formato da un alto basamento nero su cui svettavano i bianchi pilastri che reggevano una tenda a ombrellone. Una cancellata di ferro circondava l'intera struttura.

L'avvicinamento di Creed non fu diretto: lasciò infatti lo stagno per seguire un percorso distante qualche decina di metri dalla sua meta, con l'intenzione di osservarne il perimetro con un certo agio. Se laggiù si fosse celata più di una persona, intendeva saperlo. Sfortunatamente, l'altezza del basamento gli rese difficile giudicare la situazione; sarebbe bastato vestirsi di nero per confondersi perfettamente nell'oscurità.

Una volta nella zona illuminata dalla luna, fu in grado di vedere la scalinata laterale. Tutto appariva deserto.

Si accostò al palco con notevole trepidazione, quindi si fermò in ascolto, trattenendo il respiro.

Udì lo scricchiolio di un'asse.

Mosse involontariamente un passo indietro, poi riuscì a controllarsi. Strinse gli occhi per scandagliare il buio oltre la cancellata.

«Cally.» Si schiarì la gola, imbarazzato per il tremito della sua voce.

Gli giunse un altro rumore.

«Cally, sono Joe Creed», aggiunse pleonasticamente. «Sono qui.»

Un movimento attrasse la sua attenzione: qualcuno stava camminando sul palco.

Non è possibile, si disse lui. Era certo che non ci fosse nessuno quando lo aveva ispezionato qualche minuto prima.

Una figura si fece avanti. Era proprio l'uomo del cimitero, che indossava il medesimo impermeabile e la sciarpa attorno alla parte inferiore del viso.

Lo sconosciuto rimase là in piedi, osservando con calma il fotografo.

«Una nottata gelida», esordì Joe tanto per iniziare la conversazione. Gelida come una tomba, riflette.

La figura non si mosse.

«Dobbiamo parlare, giusto?» Creed si sporse un poco in avanti, senza capire bene se per incoraggiare una reazione o per vederci meglio. Si schiarì nuovamente la gola. «Sembra che io abbia qualcosa che la interessa.»

Invece di rispondere, l'uomo si avvicinò alla scalinata e cominciò a scendere. Joe lottò contro l'impulso di indietreggiare. Non intendeva mostrare la propria paura a quel picchiatello, per nulla al mondo.

«Forse sarebbe meglio che lei restasse dove si trova», suggerì.

Lo sconosciuto ignorò l'osservazione. Raggiunto l'ultimo gradino senza mai staccare gli occhi da Creed, si accostò al cancello e lo spalancò lentamente.

«Sono contento che lei sia venuto», disse finalmente.

Joe non poté fare a meno di rabbrividire. La voce dell'uomo era raschiante e contratta, come se fosse strizzata dalla laringe. O aveva un brutto raffreddore o soffriva di una malattia alla gola. Ma non fu solo quello strano timbro a provocare la sua ansietà: c'era qualcosa di più, qualcosa di indefinibile. Quando parlano, alcune persone trasudano vitalità, mentre questo tizio emanava esattamente l'opposto. Creed si sentì improvvisamente in preda alla nausea.

«Dove...» esclamò, quasi a far valere se stesso, «dov'è la ragazza?»

L'altro abbassò la sciarpa, aggiustandosela attorno al mento, facendo sobbalzare Joe alla vista del viso devastato, ora illuminato dai raggi della luna. Benché nel corso degli ultimi due giorni si fosse abituato a studiare quei tratti su pellicola, nella realtà lo sconvolgevano. Strano come la luce soffusa sottolineasse ogni ruga, quasi fosse stata tracciata con il nerofumo, invece di attenuarla.

Di nuovo quella voce agghiacciante. «Lei non è necessaria, signor Creed. Io sono la persona con la quale trattare.»

Il modo in cui la frase era stata pronunciata suonò così minaccioso che Joe cominciò a chiedersi se non avesse commesso un errore presentandosi all'appuntamento. Forse avebbe dovuto passare l'intera storia al direttore e lasciare che se ne occupasse il Dispatch, se davvero esisteva qualcosa di cui occuparsi. Non sarebbe stata una cattiva idea neppure prendere i soldi e darsela a gambe, dare al pervertito ciò che voleva e scordarsi del premio per il Giornalista dell'Anno, che comunque esulava dalle sue competenze, visto che era un fotografo, Cristo santo, e non un giornalista.

Di colpo si accorse di essere in preda ai vaneggiamenti e, con uno sforzo di volontà, desistette. «Ascolti», azzardò, «ignoro chi lei sia, ma può darsi che io abbia commesso...» Stava per aggiungere «un errore», ma l'altro lo interruppe.

«Mi dia la pellicola.» Si trattava di un ordine che non ammetteva repliche.

«Non l'ho portata.» La reazione di Joe fu rapida, pronunciata d'un fiato senza pensare. Rimase lì come uno scolaretto tremebondo che aveva impulsivamente confessato di aver rubato il portafogli del preside. Sentì un tremendo bisogno di un momento di riposo.

L'uomo tacque a lungo. Stava forse ribollendo di rabbia, era deluso per ciò che aveva appena udito? Creed non fu in grado di stabilirlo.

«Lei è un individuo molto stupido», annunciò la voce raschiante.

Questa volta, però, (e il fotografo non capì il perché) le parole ebbero un effetto minore, probabilmente a causa della stanchezza che vi traspariva, uno sfinimento che indeboliva il loro impatto. Quel tipo è antiquato, pensò Joe, mentre lentamente (molto lentamente, bisogna ammetterlo) avvertiva affiorare dentro di sé un po' della sua solita belligeranza. Di che si preoccupava? Di un vecchietto grinzoso che non sembrava abbastanza forte neppure per sputare controvento? Il suo aspetto — e la sua voce — erano terrificanti, ma, in base a ogni logica, che cosa avrebbe potuto fargli? Niente, ecco cosa. Si esibì in un sorriso forzato, sperando che il pazzo lo notasse.

«Certo», ammise, «sono davvero stupido. D'altro canto, però, neanche lei è molto brillante. Sa, esiste una legge che punisce il genere di attività cui si è dedicato al funerale di Lily Neverless.»

Si sentì ancor più temerario (benché non quanto fìngeva di essere) quando vide la figura in nero aggrapparsi alla ringhiera per mantenersi in equilibrio.

«E inoltre», proseguì, «non apprezzo che la gente si introduca in casa mia. Pensa sul serio che quello scherzo di natura mandato da lei sia riuscito a spaventarmi? Cristo, ho visto di peggio allo specchio dopo una notte di bagordi. Comunque, chi cazzo è lei?» Stava cominciando ad accalorarsi. «Il figlio di Nicholas Mallik, vero? Sicuro, so tutto di lui. Siccome si vergogna di suo padre, lei vuole che tutta la macabra storia riposi in pace. In questo caso, però, non avrebbe dovuto esibirsi in porcherie sulla tomba di Lily. Ora mi dia qualche risposta e dopo decideremo il da farsi, capito?»

Un pezzo di bravura, potreste dire, anche se si era lasciato trasportare un pochino.

«Le ho chiesto se ha capito!» esclamò, colpito dalla sua stessa impudenza.

Se era così, l'uomo con l'impermeabile non ne diede il minimo segno. Invece di rispondere, si spostò a lato del cancello e si voltò verso qualcosa alle proprie spalle.

L'oscurità del basamento del palco non era poi così totale come Joe aveva pensato, visto che in quell'attimo si stava allargando al suo interno una zona di tenebra ancor più profonda. La fissò sgomento, accorgendosi di stare assistendo all'apertura di una porta: ovviamente, la struttura era stata costruita sopra un locale di qualche tipo, probabilmente un magazzino per le sedie e attrezzature varie.

Emerse per prima la sommità calva di un cranio, resa color avorio dai raggi lunari. Creed si rammentò che l'intruso penetrato in casa sua era gobbo. Il mostro uscì dal proprio rifugio, rivelando mani con le dita e le unghie straordinariamente lunghe: bianche e scheletriche, suscitavano raccapriccio e apparivano pericolose. I suoi occhi enormi erano quasi luminosi, come se la luce si riflettesse su qualcosa dietro le orbite, proiettando un bagliore interno. Socchiuse la bocca, e i due denti acuminati e irregolari che toccavano il labbro inferiore non migliorarono per nulla il suo aspetto.

Mentre si spingeva all'aperto su gambe simili a stecchini, dai movimenti a scatti e nel contempo serpeggianti, Joe non poté fare a meno di pensare a un ragno gigante che sbucava dalla tana. L'analogia non servì a calmarlo.

«Ohcristosantissimo», sussurrò.

La «cosa» indugiò davanti al cancello.

«Lei è una persona estremamente disgustosa», dichiarò l'uomo del cimitero in tono duro.

Il fotografo era ormai al di là di ogni replica, per quanto ovvia potesse essere in questo caso. Preferì invece girarsi per fuggire, o, perlomeno, così fece la sua mente. Per l'esattezza, la sua mente era già sfrecciata lungo la striscia d'asfalto e stava scavalcando la recinzione del parco, mentre il suo corpo era rimasto inchiodato sul posto. Con un certo sforzo, Joe si guardò i piedi quasi volesse rimproverarli, ma loro si rifiutarono di prendere nota. La sua attenzione tornò quindi alle due figure vicino al cancello.

«Trattiamo», suggerì, chiedendosi immediatamente se lo avessero capito: le sue parole erano parse confuse persino a lui. «Posso procurarmi facilmente pellicola e foto, non sarà affatto un problema.»

Un solletico alla caviglia lo spinse a rivolgere nuovamente lo sguardo verso il basso.

Dapprima non notò niente di strano, ma poi, quando qualcosa gli strinse il piede, si chinò leggermente per vedere meglio. In quell'attimo, qualcosa gli strisciò lungo l'altra caviglia.

Emise un gemito disperato.

Nel punto in cui si trovava, l'erba stava crescendo a ritmo stupefacente, nascondendogli le scarpe e infilandosi nei pantaloni; lui avvertì distintamente gli steli attoreigliarsi alle gambe. Terrorizzato, mosse un passo all'indietro, o meglio tentò di farlo.

L'erba si strappò, ma la sua resistenza iniziale fu sufficiente a farlo barcollare a ritroso. Creed cadde pesantemente sulla schiena, ma si spinse istantaneamente a sedere, allibito per l'assurdità della caduta, mentre i primi fili cominciavano a serpeggiare fra le sue dita allargate.

Questa volta gridò senza ritegno, liberandosi le mani con uno strattone e sollevandosi sulle ginocchia; anche così, però, avvertì i lunghi fili d'erba avvolgergli i polpacci. Balzò in piedi e diede inizio a una bizzarra danza saltellante per paura che, se fosse rimasto fermo troppo a lungo, si sarebbe trovato (letteralmente) radicato al suolo. Quell'agitazione frenetica sortì perlomeno un effetto positivo: lo liberò dal panico che lo aveva avvinghiato.

L'essere calvo dalla schiena curva si stava avvicinando a lui, una mano protesa e'un indice ossuto puntato. La «cosa» non aveva ancora parlato, né emesso il minimo suono.

Il fetore del suo alito raggiunse Creed ben prima dell'emaciata creatura stessa: era un lezzo disgustoso, l'odore di fognature invase da escrementi e cadaveri, in sé sufficiente a sopraffare l'individuo più coraggioso.

«Stammi lontano, razza di stronzo», lo ammonì il nostro eroe, sollevando i pugni e mettendosi in posizione (e vincendo l'impulso di vomitare).

Quel dito quasi scarnificato dall'unghia contorta si spinse ulteriormente in avanti e sprofondò nel tessuto del cappotto di Creed, sollevando volute di vapore. Joe urlò quando si sentì trapassare il petto.

Si ritrovò a correre, del tutto inconsapevole della propria decisione di sottrarsi al dito che lo impalava e di fuggire a perdifiato, essendosi trattato di una reazione inconscia. Benché si premesse una mano sul buco nel petto per frenare il sangue che sicuramente stava fuoruscendo, non avvertiva alcun dolore e la sua velocità era notevole nonostante la goffaggine dei movimenti.

Davanti a lui sorgeva una buia macchia d'alberi, oltre la quale era certo si trovasse l'Albert Memorial, subito seguito dalla splendida, affollata Kensington Gore, dove ci sarebbero state macchine, gente e forse addirittura (oh, per piacere, Madre di Cristo) poliziotti.

Rallentò il passo, mentre il suo ritmo diventava ancor più scoordinato. Corse a scatti, alla maniera di Jerry Lewis, fermandosi, ripartendo, decelerando. Negli alberi là di fronte qualcosa non andava. Si bloccò di colpo.

Qualcosa non funzionava assolutamente.

Perché gli alberi si stavano avvicinando.

Lui era immobile.

E loro si avvicinavano.

Riuscì a malapena a scuotere il capo per l'incredulità. La vegetazione avanzava verso di lui come un esercito avvolto dall'ombra, le cime brulle ondeggianti come se fossero sferzate dal vento, i tronchi che filtravano (era l'unico termine per descrivere quella massa lenta, ma fluida) in avanti.

Lui si mise a correre nella direzione da cui era venuto, nuovamente verso il palco e le due figure in attesa, una delle quali, quella curva, gli tendeva le esili braccia come per porgergli il benvenuto.

Joe aggirò il clone di Nosferatu, respirando l'aria fetida che infestava le sue vicinanze. Improvvisamente immaginò una di quelle mani artigliate che tentava di afferrarlo e i suoi passi si fecero strascicati, quasi avesse raggiunto un confine invisibile dove l'atmosfera era solidificata e rendeva ogni movimento eccessivamente faticoso. Era il materiale di cui sono fatti gli incubi, quella frustrante sensazione di impotenza in cui le membra sono di piombo e la bestia feroce ti sta raggiungendo: uno scontro di volontà, nientemeno, fra l'inseguitore e la preda.

Inciampò in qualcosa nell'erba e persino il capitombolo gli parve pigro e irreale. La fitta quando colpì il terreno, tuttavia, fu realisticamente dolorosa, eppure gli fece bene. I suoi pensieri e il suo ritmo tornarono normali, come se qualunque legame mentale intercorso fra lui e la stravaganza che gli dava la caccia si fosse improvvisamente interrotto. Il terrore era la chiave, naturalmente, perché esiste un confine sottile fra il panico paralizzante e la paura galvanizzante. L'adrenalina si scatenò a tutta forza e Joe afferrò la sedia rovesciata che aveva provocato la caduta e la scagliò contro il gobbo, ormai vicinissimo.

Uno spigolo di legno colpì l'essere sul viso ossuto e Creed fu sollevato nel vederlo barcollare. Perlomeno da quel punto di vista, lo scherzo di natura era normale.

Un basso suono miagolante indicò il suo scontento e le lunghe dita artigliate massaggiarono il naso. Joe non si attardò per scoprire se sarebbe scaturito un fiotto di sangue (di qualunque colore esso fosse). Riprese a fuggire, non più impedito dall'aria sciropposa.

Si guardò alle spalle e gemette nel constatare che l'inseguimento era ripreso. Ciò che è peggio, il solo lanciare un'occhiata dietro di sé aveva ristabilito il legame mentale: le sue gambe cominciarono di nuovo ad appesantirsi.

«Oh, merda», grugnì.

Davanti a lui si stendeva lo stagno, ancora solido e immobile sotto la luce lunare. Per un breve e isterico istante prese in considerazione l'ipotesi di correre sulla sua superficie (di sicuro sembrava sufficientemente compatta), ma venne subito assalito da un altro pensiero (non meno isterico). In base a tutti i film dell'orrore che aveva visto e ai libri letti, i vampiri non potevano entrare in contatto con l'acqua (il fatto che questi esseri non fossero in grado di attraversare l'acqua corrente era un dettaglio che, al momento, non gli passò neppure per la testa, il che non dovrebbe sorprendere, dato il suo strato emotivo).

Procedette a fatica fino ai bordi dello stagno e si gettò nell'acqua.

Il gelo improvviso servì ad acuire la sua consapevolezza.

Una volta immerso fino alle cosce, si voltò verso l'inseguitore, badando a non scivolare sul fondo melmoso.

Il gemello di Nosferatu si era bloccato sull'erba e lo stava osservando. Creed immaginò che fosse perplesso, ma a quella distanza e con la luna alle spalle era impossibile stabilirlo con certezza.

«Sei fottuto, eh, bastardo?» gridò, euforico per averlo messo nel sacco. «Un po' di acqua fredda fa male alla carnagione, vero? Raggrinziresti fino a dissolverti nel nulla!» (A questo punto del gioco, lui credeva sinceramente di essere braccato da un vampiro).

Incredibile ma vero, si mise a ridacchiare. La risata, tuttavia, si trasformò in un gemito quando la «cosa» si precipitò in avanti (velocemente, allo stesso modo in cui un ragno gigantesco e affusolato piomberebbe su una mosca imprigionata) ed entrò nello stagno.

In quel momento la professionalità di Creed, l'istinto acquisito e perfezionato che era divenuto per lui una seconda natura, venne in suo soccorso. Si ricordò della Nikon nella tasca del cappotto.

Il suo primo pensiero fu di salvarla dall'acqua, il secondo di fotografare quella favolosa (nel senso peggiore) creatura. Il terzo, in rapidissima successione, gli venne ispirato dal film di Hitchcock, quello in cui James Stewart, immobilizzato da una gamba ingessata, ricorre al flash di una macchina fotografica per accecare temporaneamente un assassino penetrato nel suo appartamento per eliminare l'unico testimone dell'omicidio (Mr. Stewart, appunto), fornendo quindi alla polizia, già allertata, un po' più di tempo per accorrere a salvarlo. (Ovviamente, il pensiero gli balzò alla mente in un lampo, di gran lunga più veloce della spiegazione relativa.)

Infilò una mano in tasca e pregò silenziosamente che la Nikon non si fosse riempita d'acqua, poi la sollevò all'altezza del petto e puntò l'obiettivo.

La «cosa» era già immersa nello stagno fino alle ginocchia ossute.

 

16

 

avete appena sperimentato una pausa teatrale.

Il suo scopo è stato quello di sottolineare il terrificante, mortale secondo intercorso prima che Creed premesse l'otturatore senza sapere se l'acqua avesse danneggiato la sua attrezzatura. In un momento del genere, l'apprensione può essere assolutamente insopportabile, a un punto tale che la riluttanza a scoprire la verità può ostacolare l'azione (in questo caso, il movimento di un dito) se non, nelle circostanze più tragiche, impedirla completamente.

Per fortuna Creed era troppo motivato dall'istinto di conservazione per rimuginare sulla situazione.

Chiuse gli occhi e premette il pulsante.

Il bagliore dietro le palpebre lo informò che tutto aveva funzionato normalmente.

Riaperti immediatamente gli occhi, si entusiasmò nel vedere quella mostruosità immobile a pochi passi da lui, come trafitta: i bulbi oculari simili a biglie erano sbarrati in un'espressione fissa e vacua. La creatura sembrava in uno stato di animazione sospesa.

Il fotografo ripeté l'operazione, e questa volta il flash fece barcollare la «cosa» a ritroso finché non cadde in acqua, dove giacque scomposta con il cranio a punta in emersione fino al mento, del tutto simile a una maschera grottesca galleggiante sulla superficie.

Il vampiro spalancò la bocca in quello che sarebbe potuto essere un ringhio, ma non produsse alcun suono. I fili di saliva che gli pendevano dai denti appuntiti scintillarono alla luna mentre la testa cadaverica si piegava per volgersi verso il cielo.

Quella visione, in tutta la nettezza della notte argentea, con lo stagno plumbeo che nascondeva il corpo in modo da fare apparire il cranio a sé stante, un'entità di per sé, fu lo spettacolo più sconvolgente che Creed avesse avuto la sfortuna di vedere.

E quando l'essere balzò fuori dall'acqua come sospinto da una tremenda forza sottostante, le gambe di Joe cedettero, facendolo crollare all'indietro.

L'istinto salvò la Nikon una seconda volta, perché lui la resse in alto durante la caduta, premendo per sbaglio l'otturatore e inondando di luce i dintorni. Bagnato fradicio e intento a sputare liquido salmastro, il nostro eroe lottò per rimettersi in piedi: ci era quasi riuscito quando si accorse che la schiena curva gli si stava avvicinando a velocità impressionante, quasi piombasse dal cielo.

Con un urlo, Joe si spostò di lato, quasi finendo sott'acqua, mentre la «cosa» si tuffava a vuoto, immergendosi completamente; in un istante, però, fu nuovamente eretta e saltellante verso la preda come una cavalletta acquatica. Anche Creed stava procedendo a balzi, allontanandosi il più possibile da quell'obbrobrio in direzione della terraferma, ma continuando a incespicare a ogni passo. Sembrava che entrambi si stessero esibendo in un frenetico balletto al chiaro di luna.

Gli artigli agguantarono gli abiti del fotografo, che si svincolò con uno strattone. Subito dopo si ritrovò a qualche centimetro dal prato che circondava lo stagno, mentre lo scherzo di natura incombeva sopra di lui, appestando l'aria con il fetore del suo fiato. Dita impossibilmente ossute si attoreigliarono ai capelli di Joe, tirandogli la testa all'indietro.

Sopra di lui brillarono due denti acuminati.

«Ahhhhhhgghhhh», urlò lui.

«Hhhhhhssssuhh», gli rispose un sussurro.

I denti cominciarono a scendere, a farsi sempre più vicini. A Creed parve che arrivassero da soli, senza accompagnamento di viso e mascelle, perché era concentrato unicamente su di loro, loro soltanto. Poté avvertire quelle zanne che affondavano nella sua carne ben prima che lo sfiorassero effettivamente.

Di colpo divenne consapevole delle fattezze che circondavano i denti, in quanto la carnagione cadaverica era ora divenuta color giallo pallido.

Il vampiro distolse lo sguardo dalla sua vittima, mostrando un profilo in cui una luce giallo vivo splendeva in un occhio bulboso.

La stretta che imprigionava i capelli di Creed cessò all'improvviso e lui finì con il naso nell'acqua.

Il gemello di Nosferatu stava ora risalendo la leggera china ai bordi dello stagno, sollevando le gambette in modo comico sopra la superficie melmosa. Joe vide avvicinarsi il bagliore di fanali e rimase perplesso soltanto un paio di secondi; subito dopo si rese conto che il lampeggiare di un flash in un parco che si supponeva deserto aveva ovviamente destato l'interesse degli agenti di pattuglia.

«Oh, Dio, ti ringrazio», gemette fra sé, prima di lanciarsi a propria volta lungo l'argine, disperatamente ansioso di allontanarsi da lì, troppo terrorizzato per rimanere a fornire spiegazioni ai poliziotti, troppo atterrito per soffermarsi in quel luogo da incubo un secondo di più.

La figura in fuga era stata illuminata dai fari, che proiettarono sul prato un'ombra incredibilmente lunga e fantasticamente bizzarra. Il mostro si stava dirigendo verso il palco e il veicolo aveva abbandonato la carreggiata per tagliargli la strada.

Inosservato, Creed si trascinò fuori dall'acqua e schizzò via nella direzione da cui era venuto, tenendosi accucciato come se ciò potesse fare qualche differenza e sforzandosi di confondersi con l'amichevole (augurabilmente) oscurità degli alberi. Non si guardò alle spalle neppure una volta.

Ben presto giunse alla recinzione, che scavalcò immediatamente senza curarsi di venire scorto dall'altra parte. Tre giovanotti di stirpe mediterranea, forse camerieri diretti a casa dopo una serata di duro lavoro oppure turisti in cerca d'azione, si girarono sorpresi quando l'uomo inzaccherato si lasciò cadere sul marciapiede proprio dietro di loro. Dapprima attoniti, poi esilarati, se lo indicarono a vicenda, infine se ne andarono ridendo e voltandosi di tanto in tanto. Felice di aver allietato la loro notte, Joe attraversò la strada diretto al punto in cui aveva parcheggiato la Suzuki.

Mentre camminava sgocciolando, si portò una mano al petto chiedendosi se il dito omicida del mostro avesse prodotto un danno permanente. Perlomeno non provava alcun dolore — per ora — e non notò tracce di sangue sulle dita. Si fermò sotto un lampione e si guardò il torace fradicio d'acqua, ispezionando il tessuto del cappotto: non era neppure lacerato.

Avviatosi nuovamente, noncurante delle occhiate curiose e dei commenti suscitati fra i passanti (una signorina dalla professione notturna dichiarò che era il sogno più bagnato mai visto in vita sua), Creed si fece strada fino alla jeep e vi salì con febbrile sollievo.

Accese la luce interna e si esaminò ancora. Non uno strappo, né una goccia di sangue. Ma che diavolo stava succedendo? Si tolse il cappotto e controllò la camicia. Cristo, era davvero tutto a posto. Eppure aveva visto il fumo o il vapore che si innalzava dal tessuto, sentito quel malvagio dito ossuto affondare nelle sue carni. Certo, ma non aveva avvertito dolore, non era così? In effetti, no. Quei fottuti avevano giocato con il suo cervello! Ecco la spiegazione. Doveva essere così. Avevano pasticciato con la sua testa per due notti consecutive! Si era trattato di semplici illusioni, non aveva affatto visto ciò che aveva creduto di vedere: niente tomba sussultante, nessuna faccia alla finestra o succhiatori di sangue nel letto o alberi semoventi, e neppure il dito che gli penetrava nel petto! I bastardi stavano cercando di spaventarlo a morte! E ci erano riusciti!

Creed rabbrividì per il freddo, ma soprattutto per la paura. Spense la luce e rimase seduto al buio, osservando la strada, angosciato all'idea che loro potessero averlo seguito.

No, in quel preciso momento sarebbero stati interrogati dagli agenti del parco. Uno dei due, comunque, perché quell'insetto filiforme non poteva essere sfuggito alla cattura. Tuttavia avrebbero potuto farsi nuovamente vivi a casa sua quella notte stessa. Oh, Gesù. Quel che è troppo è troppo! Era giunta l'ora di passare la storia al capocronaca: che vi si dedicassero pure gli addetti ai lavori, i giornalisti investigativi, ai quali avrebbe fornito materiale sufficiente per cominciare a darsi da fare. E perché non telefonare di nuovo alla polizia? In fin dei conti, era stato aggredito e quel mostro cadaverico si era nuovamente introdotto a casa sua. (Si chiese come si stesse ora giustificando con i poliziotti quello scherzo di natura. Avrebbe sostenuto di avere un debole per i tuffi nell'acqua gelida al chiar di luna? Con un po' di fortuna, lo avrebbero rinchiuso in una cella per tutta la notte. In caso di fortuna sfacciata, invece, sarebbe finito in galera con l'accusa di essere troppo grottesco per girare liberamente.) Dannazione, che decidesse il Dispatch: il direttore avrebbe saputo come agire.

Accese fari e motore, ma rimase lì, immerso nelle proprie riflessioni. Il sedile era zuppo, gli sembrava di avere i piedi avvolti in stracci fradici e, quando infilò una mano in tasca per estrarne una sigaretta, le sue dita toccarono una poltiglia immonda. Imprecò ad alta voce.

Il viaggio di ritorno verso Earl's Court fu miserrimo, per nulla alleviato dal risorgere dell'indignazione. Quei bastardi la pagheranno, si ripromise. Si accorgeranno delle conseguenze! Non si gioca pesante con la stampa per poi passarsela liscia, nossignori. Sogghignò malignamente. Così volevi sottraiti agli occhi del pubblico, vero? Aspetta e vedrai che cosa succede quando la tua brutta faccia grinzosa comparirà sul giornale, nientemeno che in prima pagina, su tre colonne come minimo! Nessuno si può permettere di pisciare su Joe Creed, nessuno!

Svoltò nel vicolo e fermò la jeep davanti al garage, parcheggiandola accanto alla saracinesca. Era troppo infreddolito, stanco e scosso per metterla all'interno e, comunque, non era la prima volta che la lasciava all'aperto: qualche lattina di birra sembrava restringere l'entrata al punto da sconsigliare manovre di precisione.

Presa con sé la macchina fotografica, uscì sul marciapiede e si diresse al portoncino di ingresso, la chiave puntata come una radiobussola.

Ma il portone era già aperto.

Impietrito, si accorse dei gemiti forsennati, un suono che assomigliava alle urla di un bambino in preda a un tremendo dolore.

«Sammy!»

Il grido aleggiava ancora nell'aria quando Creed sfrecciò in casa e su per le scale. Ormai il terrore del rientro nel proprio appartamento era diventato una sensazione quasi familiare, ma non si soffermò a rifletterci sopra. Le luci erano accese in cucina e nel soggiorno, ma entrambi i locali erano vuoti, come pure la camera da letto e il bagno.

Si rese conto che le urla provenivano dal piano superiore.

«Sam?» Questa volta parlò con voce soffocata. «Sammy?» Più forte, ma non molto.

Entrò in cucina e guardò in su, nel vortice che era la scala a chiocciola, il foro buio alla sommità sfumato d'arancione. Dapprima arrancò a fatica sui gradini di metallo, ma la sua salita acquistò velocità quando i lamenti sovrastanti crebbero di volume, trasformandosi in uno spaventoso stridore.

Di sopra le luci erano spente, ma un bagliore rossastro filtrava dalla camera oscura. Qualcosa era appeso al battente, qualcosa che si dibatteva e contorceva da parte a parte.

«No, no, no...» sussurrò lui avvicinandosi, la voce piena di incredulità. Chi poteva fare una cosa del genere? Bisognava essere... bisognava essere disumani...

Accese la luce e rimase immobile come se avesse ricevuto una scossa elettrica, le dita tremanti ancora sull'interruttore. Gli venne in mente che forse sarebbe stato costretto a scendere in garage per prendere un martello.

Avrebbe dovuto estrarre il chiodo che assicurava la gatta alla porta.

 

17

 

la vita è piena di difficoltà, lo sappiamo tutti. È così che impariamo e cresciamo. Le avversità temprano il carattere e formano l'uomo (o la donna). In quanto esatto opposto della spensieratezza, esse ci aiutano addirittura ad apprezzare di più la vita; una persona priva di conflitti è un individuo senza passioni, perché i traumi mettono alla prova e rafforzano la fibra morale, diventando una misura della profondità umana. Non esiste un solo ostacolo sulla terra che non possa essere superato con la forza d'animo e lo spirito costruttivo. O, perlomeno, così ci lasciano credere.

Ora, essere inseguiti in un parco nel cuore della notte da una creatura cadaverica e un gregge di alberi, giocare a gatto e topo in uno stagno gelido, venire trafitti ma non trafitti da un dito simile a un pugnale, poi tornare a casa e trovare il gatto inchiodato a una porta e il tuo unico figlio scomparso non è, fortunatamente, un'esperienza comune a tutti, ma di certo sarà tale da mettere duramente alla prova la fibra più resistente. Creed, come sappiamo, non possedeva la fibra più resistente.

Non andò in frantumi, almeno non subito. Per prima cosa trovò un martello, poi avvolse il cappotto attorno alla povera Grin per evitare che il disgraziato felino lo graffiasse fino all'osso. Ciò fatto, estrasse il lungo chiodo dal legno e dalla coda dell'animale, tenuto saldamente sotto un braccio. Una volta libera, Grin non si curò di ringraziare: schizzò via in un turbine di pelo e scomparve giù per la scala a chiocciola. Il fotografo non aveva idea di dove fosse corsa a rifugiarsi, né si sforzò di scoprirlo; la sua prima preoccupazione riguardava al momento l'ubicazione del figlio.

Il foglio di carta ripiegato, tinto d'arancione dalla lampadina della camera oscura, giaceva per terra sulla soglia, come se la gatta fosse stata usata in qualità di segnale. Creed lo raccolse, macchiandolo di sangue con le dita. Apertolo, lesse:

 

SE PARLERAI MORIRÀ

 

Fu a quel punto che andò in frantumi.

 

Un'ora dopo lo ritroviamo a rimuginare in cucina, la bottiglia di whisky ormai quasi vuota davanti a sé, la stanza invasa dall'aria viziata e il portacenere zeppo di mozziconi scuri.

«Bastardi», sta mormorando, non per la prima volta in quell'ora lunga, isterica, poi lacrimosa, infine piena di sensi di colpa. Come poteva essere stato tanto stupido? Che cazzo doveva fare adesso? In quale modo fare tornare Sammy? Che cosa dire a Evelyn?

Oh, Dio, oh, Dio, oh, Dio.

Finisce il liquore nel bicchiere e se ne versa dell'altro. Armeggia con una cartina, riempiendola esageratamente di tabacco, spargendolo sul tavolo e nel whisky. Per reggere il fiammifero gli ci vogliono entrambe le mani. Che razza di notte!

L'alcol non gli brucia la gola né ravviva il suo spirito. Sono morto, geme fra sé. Evelyn mi ucciderà. Se non lo farà lei, ci penseranno loro!

La sua testa comincia a cadere in avanti per tornare subito eretta con un sussulto. Un attimo dopo crolla di nuovo, mentre finalmente il torpore inizia ad attutire ogni cosa. Le palpebre, troppo pesanti, accennano a chiudersi.

Passi sulle scale...

 

* * *

 

«La porta era aperta», esordì lei in tono calmo.

Joe la fissò incredulo, perfettamente sveglio e stupefatto che Cally possedesse tanta faccia tosta da affrontarlo. Quella notte la ragazza portava i capelli a coda di cavallo e indossava un pullover nero a collo alto sotto un impermeabile beige. Aveva un aspetto splendido, e lui si odiò per averlo notato.

«Tu...» esclamò in tono d'accusa.

«Me la sono chiusa alle spalle. Sei assolutamente al sicuro.»

«Sono al sicuro?» Per quanto ben desto, si sentiva ancora tutt'altro che lucido.

«Per il momento», aggiunse lei, non certo con l'intento di rassicurarlo. «Posso avere un goccio di quello scotch?»

«Irlandese», corresse Joe. «È irlandese.»

La ragazza si avvicinò al tavolo e Creed non riuscì a stabilire se la sua espressione assomigliasse di più alla simpatia o al disgusto. Si raddrizzò sulla sedia, la sigaretta penzolante dalle labbra. Cally si diresse a un armadietto in cerca di un secondo bicchiere.

«Sotto», le indicò lui.

Trovato il bicchiere, la ragazza si versò da bere e inghiottì una lunga sorsata prima di parlare. «Non sembri molto in forma», commentò infine.

Joe sorrise storto. «Ma davvero? Sai una cosa? Mi sento una merda!»

Balzò in piedi di scatto rovesciando la sedia, il viso livido e i pugni contratti.

Cally arretrò, lasciandosi quasi sfuggire il bicchiere dalle dita. Aggirato il tavolo, Creed si slanciò verso di lei, costringendola a prendere una sedia e a frapporla tra loro.

«Per favore, calmati! Calmati!»

Lui ricavò una certa soddisfazione dalla luce di paura nei suoi occhi.

«Vuoi che mi calmi, maledetta stronza? Rapisci mio figlio e pretendi che stia calmo?» Afferrò lo schienale della sedia e la gettò di lato; Cally si ritirò in un angolo della cucina e protese una mano per schivarlo.

«Devi ascoltarmi, Joe. Non puoi biasimare me per quanto è successo. Sto solo cercando di aiutarti. Se non vuoi che venga fatto del male a Samuel, devi ascoltarmi.»

Lui si bloccò, desiderando ardentemente di strozzarla, ma per niente sicuro di possedere in quel momento la forza necessaria; la sua rabbia non si era dissolta, bensì solo temperata dalla preoccupazione per il figlio. «L'altra sera mi hai drogato, vero? Hai messo nel mio brandy una sostanza in grado di farmi vedere cose che non esistevano.»

Forse, in un certo modo perverso, lei pensò che la verità potesse essergli di qualche aiuto. «L'ho mescolata al tabacco. Non in quantità tale da fartene accorgere, ma sufficiente per avere effetto. Possiamo sederci a parlare?»

«Non finché non mi avrai spiegato il perché», dichiarò Creed in tono minaccioso, flettendo i pugni.

«Per spaventarti.»

«Merda, ma per quale motivo?» Avanzò di un passo, spingendola ad arretrare di nuovo. Riusciva a stento a controllarsi.

«Per ammorbidirti, renderti più docile. Si trattava di un allucinogeno non molto potente, privo di effetti duraturi. È servito a suscitare in te brutti pensieri.»

«Gesù, supponevo che fosse qualcosa del genere!» Scosse la testa con aria stanca. «Per un po' ho creduto di essere impazzito. Io... devo sedermi.» Crollò su una sedia e inghiottì il whisky rimasto sul tavolo.

Se era ancora spaventata, Cally non lo dimostrò affatto, per quanto, sedendosi di fronte a lui, i suoi movimenti fossero cauti.

Creed osservò con sospetto la sigaretta che poco prima gli era caduta di bocca e stava ora bruciando la superficie di legno.

«È normale», affermò lei. «Il tabacco è pulito. La tua scatola è stata vuotata e riempita con tabacco nuovo. Guarda quante ne hai già fumate stanotte.»

Joe prese il mozzicone e lo riaccese. «Dov'è mio figlio?» domandò infine, costringendosi alla calma.

«Al sicuro. Per il momento.»

Lui si tuffò attraverso il tavolo (alla faccia della calma) e la afferrò alla nuca per spingerla verso di sé, i loro visi erano vicinissimi quando Creed le sputò letteralmente la domanda: «Dov'è mio figlio?»

Cally tentò inutilmente di sottrarsi alla stretta. «Mi stai facendo male», dichiarò senza la minima traccia di supplica.

«Rispondimi!»

«Se mi succede qualcosa, loro lo uccideranno.»

Come per riflesso, le sue dita si allentarono, anche se continuò a tenerla in quella posizione. «Chi sono? I due mostri del parco non avrebbero potuto portarlo via, sarebbe stato impossibile per loro arrivare qui prima di me. Tra l'altro, ora saranno probabilmente in cella.»

«Ti sbagli.»

«Sono riusciti a scappare?» Le lasciò andare il collo, ma lei non si ritrasse.

«Joe, tu non sai con chi hai a che fare. Questa gente non è...» S'interruppe, in cerca della parola adatta. «Comune», concluse debolmente, come se il termine fosse inappropriato.

«Sicuro. Uno è un vampiro, vero?»

La ragazza tacque.

Lui si appoggiò allo schienale e tirò una boccata di fumo. «Quindi chi ha preso Sammy, tu?»

«Sono venuta io perché il bambino non si spaventasse troppo.»

«Questo era il piano, allora, togliermi dai piedi per poterlo rapire. Tu sapevi che era qui perché gli hai parlato al telefono.»

«Se avessi consegnato la pellicola, non sarebbe accaduto niente.»

«Però ignoravi che non l'avrei fatto.»

«Solo finché non sei arrivato al parco.»

«Dunque hai rapito mio figlio come forma di assicurazione, nel caso io non avessi mantenuto i patti.»

Lei bevve un sorso di liquore a occhi chiusi.

«Si prendano pure i negativi e le foto», proseguì Creed. «Possono avere quello che vogliono, qualsiasi cosa. Ti garantisco che non parlerò mai di questa storia con nessuno. Non possiedo molto denaro, ma racimolerò tutto ciò che posso. Voglio soltanto che Sammy ritorni e che mi lascino in pace.»

«Non si fidano di te.»

«E allora qual è l'alternativa? Non sono in grado di fare altro.»

«Prima di decidere vogliono parlarti.»

«Forse dovrei rivolgermi alla legge», affermò lui come se riflettesse ad alta voce.

«Non pensarci neppure! Oh, Dio, non prendere nemmeno in considerazione un progetto simile!»

Creed sbatté le palpebre, colto alla sprovvista dalla veemenza delle sue parole. «In tal caso, sarà meglio che tu mi spieghi chi sono costoro e perché mai quel folle non vuole che la sua faccia grinzosa compaia sui giornali. Posso capire che si vergogni della propria famiglia, ma non vedo come possa essere biasimato per ciò che Mallik ha fatto prima dell'ultima guerra. Di che diavolo si preoccupa?»

«Per il tuo bene è meglio che tu non sappia niente di loro. Vogliono essere lasciati in pace.»

«Anche la Garbo, se per questo, ma non sempre le cose funzionano così, che cos'hanno in mente? Senti, dimmi perlomeno se quell'uomo è un parente del vecchio Nick. Nicholas Mallik», aggiunse, notando la sua espressione confusa.

«Sì», ammise Cally con riluttanza, «sono parenti, però non posso rivelarti altro.»

«E già qualcosa. E adesso che cosa faccio?»

«Te l'ho spiegato: dà loro ciò che ti hanno chiesto. Dopo che ti avranno parlato, però.»

«Perché non posso consegnarti tutto adesso?»

«Credimi se ti dico che mi piacerebbe fosse possibile. Sfortunatamente, ora devi fare a modo loro.»

«E se è una trappola? Oltre a mio figlio, anch'io finirei nelle loro mani.»

«Non hai scelta. Prima l'avevi, ma adesso no. Stanotte rimarrò con te.»

«Per aiutarmi a prendere una decisione?»

Lei scosse la testa. «Ti ripeto che non hai scelta. Sono qui solo per accertarmi che tu non prenda iniziative sconsiderate.»

«In che modo riusciresti a fermarmi?»

«Forse non ce la farei, ma in questo modo lo sapremmo.»

Non se per prima cosa io ti stendessi a suon di botte e poi telefonassi alla polizia, pensò lui. «Sei per caso armata?» Dato che sarebbe stato sciocco porle la domanda in tono casuale, Creed non ci provò neppure.

«Scordati l'idea di aggredirmi, sei troppo stanco per riuscirci. Finora sei stato sostenuto dalla rabbia, ma adesso sta svanendo, vero? Sei esausto.»

«È stata una giornata molto lunga.» Di colpo si accorse che, in effetti, lo sfinimento di poco prima era tornato ad assalirlo.

«Sei molto stanco, Joe.»

«Cosa sei, un'ipnotizzatrice?» Sollevò il bicchiere, che gli parve straordinariamente pesante. Il whisky aveva un cattivo sapore.

«Si vede benissimo che sei morto di stanchezza. Dev'essere difficile mantenersi lucido in questo stato.»

«Sono in grado di farcela.»

«Hai i vestiti bagnati, te ne rendi conto? Eri troppo esausto per notarlo?»

Creed depose il bicchiere, divenuto un fardello eccessivo. «Chi sei, Cally? Qual è il tuo ruolo in questa storia?»

Lei poteva anche aver risposto (l'aveva infatti udita mormorare qualcosa), ma il suo cervello si stava chiudendo. Era davvero stata una giornata molto lunga. Gesù santo, era stata una vita lunga. «Che cos'hai detto?» domandò, sforzandosi di raddrizzare le spalle.

«Va tutto bene, Joe, dormi.»

«No, hai detto qualcos'altro.»

«Che sono la nipote di Lily Neverless.»

«...sì... pensavo proprio di avere sentito qualcosa del genere...»

Con la testa reclinata sulle braccia, Creed si addormentò.

 

18

 

lei gli aveva lasciato un biglietto sul tavolo.

Fu la prima cosa che Creed vide svegliandosi.

Gemendo, si passò una mano fra i capelli. I suoi abiti puzzavano, anzi, il suo corpo puzzava.

Perché gli lasciavano sempre dei biglietti? si chiese raccogliendo il foglio di carta. Perché non potevano dirgli le cose in faccia? Si trattava di un indirizzo. Lui suppose che intendessero incontrarlo lì, anche se non ne veniva fatta esplicita menzione.

Osservò i fondi del proprio whisky, una vista avvilente e solitaria alla fredda luce mattutina. Notò che il bicchiere di Cally non era più sul tavolo; nel lavandino e ben ripulito da ogni impronta, si sentì certo. Esaminò nuovamente l'indirizzo, scritto a mano in lettere maiuscole. Immaginavano davvero che sarebbe andato là?

Sobbalzò allo squillo del telefono.

Si alzò troppo in fretta e rimase vacillante accanto al tavolo, appoggiandovisi con una mano per mantenere l'equilibrio. Il telefono insistette e lui si mosse con passo malfermo; quando sollevò il ricevitore, traboccava d'ansia e di paura.

«Farai meglio ad ascoltar...» cominciò a dire.

«Come sta, Joe?» lo interruppe la voce di Evelyn. «Gli hai dato i cereali per colazione?»

«Evelyn?»

«Samuel ha un'altra madre, per caso?» Il telefono sembrava caldo per effetto della sua impazienza. «Ha dormito bene?»

«Evelyn, sai che ore sono?»

«Sì, mancano quattro minuti alle dieci. Cos'hai?»

Lui controllò l'orologio, ma il suo modello economico non si era rivelato a prova d'acqua: le lancette si erano fermate a mezzanotte e tre quarti. La pendola sul caminetto, però, gli confermò che l'ex moglie aveva detto la verità.

«Lui, beh, ecco, sta bene», dichiarò.

«Vuole parlare con me? Passamelo.»

«No», rispose Creed troppo in fretta. «È uscito a fare quattro passi, per prendermi il giornale. Voleva comprare del cioccolato.»

«Non può mangiarlo. Santo Dio, non te lo ha spiegato? Vuoi che ridiventi grasso? Si può sapere che cos'hai nella testa?»

«Non ti preoccupare, non gli ho dato molti soldi.»

Lei si placò solo in parte. «Probabilmente non rispetta la dieta perché è scosso. Gli manco, Joseph? Vuole tornare a casa? Dev'essere terribilmente infelice.»

«Sta benissimo. In effetti, è molto allegro.»

«Cosa?»

«Beh, sai, sta facendo il coraggioso. Credo che questo intermezzo possa essergli utile, consentirgli un po' di tempo per riflettere. Conosci il detto — l'assenza spezza il cuore, ma cura il cervello.» La sua testa, invece, doleva per lo sforzo di fingere. Cristo, doveva sdraiarsi.

«E chi lo dice?»

«È solo una massima.»

«Non l'ho mai sentita. Ecco, forse la punizione è troppo dura. Samuel è un bambino sensibile, ha bisogno della mamma.»

«A onor del vero, Evelyn, ieri sera mi ha spiegato che un uomo deve camminare con le proprie gambe, almeno di tanto in tanto, lasciare il focolare domestico per capire quanto vale effettivamente.»

«Samuel ha detto una cosa simile?»

«Devo ammettere che mi ha fatto sorridere. Sembrava tanto serio, come se fosse cresciuto di qualche anno.»

«Non l'ho mai sentito esprimersi in questo modo. Il focolare domestico?»

«Ecco, le parole non erano esattamente queste, però ti ho riportato fedelmente il succo del discorso. Ha sostenuto che sarebbe stato divertente stare un po' con il papà.»

«Ma davvero?» La temperatura della sua voce era calata considerevolmente. «Vedrai che tra non molto cambierà parere, quando cominceranno a mancargli le comodità, tipo lenzuola pulite, pasti regolari e una maledetta stupida su cui contare! Ti accorgerai quanto gli ci vorrà per stancarsi del caro paparino e del suo squallido stile di vita! Aspetta finché non avrà voglia di una camicia stirata o di cibo diverso dalla spazzatura. A quel punto vedremo quanto» — parodiò le parole — «vale effettivamente.»

Lui reagì con notevole ragionevolezza. «Penso sia solo giusto lasciare che nostro figlio...»

«Giusto? E tu che cosa ne sai? Per te, giusto è quando tutto funziona alla maniera di Joseph Creed. Santo Dio, aspetta di scoprire come ci si sente a essere responsabili di un altro essere umano per ventiquattro ore al giorno, sette giorni su sette. Dover badare a tuo figlio metterà presto la sordina ai soliti passatempi in cui ti crogioli. Vediamo un po' come te la cavi, come tu ti prendi cura di lui!»

Razza di stronza, se solo sapessi la verità! «Funzionerà magnificamente», ribatté, tutto spacconeria. «Non preoccuparti per noi.»

«Me ne guardo bene. Trascorrerò il miglior periodo della mia vita, credimi. Per una volta, sarò libera di divertirmi, di dedicarmi a ciò che piace a me. Non so da quanti anni non mi si presentava più l'occasione di pensare a me stessa. Non ho parole per dirti quanto me la passerò bene! Se avrà bisogno di qualche fazzoletto, ve lo manderò per posta.» E con questo interruppe la comunicazione.

Joe emise un lunghissimo sospiro. Domani Evelyn avrebbe senz'altro rivoluto Sammy a casa. Per allora, doveva escogitare qualche soluzione.

 

* * *

 

Lasciamo che Creed rimanga un attimo nel proprio brodo mentre rivolgiamo la nostra attenzione su qualcun altro che compare (anche se per ora solo perifericamente) nella storia. Antony James Barnabas Blythe era un uomo facile da disprezzare. Figlio di piccola nobiltà in via di decadenza, educato in buone scuole, rafforzato da un breve periodo nella Cavalleria, si era armato contro gli abituali rigori della vita quotidiana munendosi delle conoscenze giuste prima di imbarcarsi in una carriera nel mondo civile. (Le stesse conoscenze avevano in precedenza controbilanciato una deplorevole mancanza di fondi, dato che la realtà economica degli anni Settanta aveva pesantemente inciso sul patrimonio di famiglia e, per di più, suo padre era stato sufficientemente sconsiderato da andarsene al creatore sotto un governo laburista, quando le tasse ereditarie avevano raggiunto livelli infami.) Il suo esordio nel giornalismo lo aveva visto nei panni di corrispondente locale per un noto opinionista, che alimentava con chiacchiere (spesso inventate) ricavate dalle proprie aderenze nel bel mondo, finché non aveva assunto il ruolo principale dopo che una causa di troppo per diffamazione contro il giornale aveva tolto il tappeto sotto i piedi al cronista in carica.

A causa di certe affettazioni di sapore decadente, del linguaggio compito e di un acuto senso dell'abbigliamento (niente di destrutturato nei suoi completi di alta sartoria), oltre a una sospettosa ipersensibilità riguardo la propria vita privata, veniva generalmente dato per scontato che Blythe fosse omosessuale. Tale opinione non era del tutto esatta, in quanto, benché in passato fossero esistite «leggerezze» con esponenti del suo stesso sesso, soprattutto nella Cavalleria, e avesse accumulato nel corso degli anni un esorbitante numero di amichetti, una genuina mancanza di desiderio e le emorroidi avevano da tempo raffreddato qualsiasi inclinazione egli avesse posseduto in quella direzione. In verità, e in pratica (o non-pratica, per essere precisi), Antony Blythe era asessuato. Si tratta di una condizione che preclude parecchi problemi nella vita.

Al pari di Joe Creed, non era molto benvoluto dai colleghi ma, a differenza del fotografo, non godeva neppure di un gran rispetto. Dopotutto, chi ama sul serio i pettegolezzi al di là di un livello superficiale? Non solo sai automaticamente di non potervi prestar fede, ma ti senti anche colpevole per averli ascoltati. Inoltre, non puoi mai essere sicuro di non essere il prossimo bersaglio. Era una professione poco onorevole, e Blythe rappresentava il massimo della disonorevolezza.

Tuttavia era molto in gamba nel proprio lavoro. Aveva fiuto per lo scandalo, orecchio per le dicerie e occhi acuti nello spiare. Sfortunatamente, la crescente popolarità delle cause per danni aveva di recente imbrigliato la sua e le altre colonne pettegole, benché occasionalmente, solo occasionalmente, la sua rubrica fosse tanto scandalosa da aggiudicarsi la prima o la seconda pagina. Quei rari momenti, che lui amava moltissimo, rappresentavano in definitiva la sua ragion d'essere. Vedete, era un individuo che provava gusto nel danneggiare, che preferiva la smorfia di disprezzo all'elogio, ferire piuttosto che aiutare. Si tratta di una prerogativa abbastanza comune alla categoria, ma che in Blythe risultava sviluppata ai massimi livelli (o minimi, a seconda dei punti di vista). Un Freud da salotto potrebbe affermare che tutto ciò ha molto a che spartire con il senso di inadeguatezza di una persona, il bisogno di trascinare gli altri al proprio livello o, se possibile, più in basso. Antony Blythe, in effetti, traboccava di insicurezze, anche se, vedendolo, non lo avreste mai capito; per l'esattezza, non lo capiva neppure lui stesso, a tal punto arrogante era la sua natura. Non rispettava nessuno e si sforzava costantemente di dimostrare che non esisteva nessuno da rispettare. In sintesi, un caso veramente triste (altra cosa di cui non si rendeva conto).

Se quella mattina era più irascibile del solito (e di solito lo era parecchio a qualsiasi ora del giorno), il motivo era che il contenuto della busta di Prunella destinata a Joe Creed lo aveva tormentato per gran parte della notte. Il fotografo, che Blythe sembrava spregiare più di chiunque altro, aveva per le mani qualcosa, e lui voleva sapere di che cosa si trattasse. L'istinto (o forse il fiuto per la sporcizia) gli suggeriva che doveva essere una storia degna di pubblicazione, mentre i suoi stessi occhi gli avevano detto che la cosa riguardava un partecipante ai funerali di Lily Neverless, un uomo assai somigliante a un omicida (si ricordava la foto mostratagli da Creed) impiccato mezzo secolo prima. Il fotografo non avrebbe sprecato il proprio tempo per qualcosa di poco redditizio, ma, santo cielo, quello non era il suo mestiere. Il materiale per gli articoli andava lasciato ai professionisti, a coloro che davvero sapevano come scavare in profondità e che possedevano gli agganci giusti. Professionisti come, beh, come lui stesso.

Dal suo cubicolo individuò Prunella, diretta alla scrivania. Dopo aver attratto la sua attenzione, la chiamò con un cenno, incurvando il dito come un maestro intento a convocare il pagliaccio della classe.

Iniziò con sufficiente buona grazia. «Sei esageratamente soddisfatta della professione che hai scelto, vero, mia cara?»

Tanta affabilità innervosì la poveretta. «Naturalmente. Io...»

«Questo mi allieta, Prunella. Talvolta ci si preoccupa dei propri impiegati. Tu lavori per me, non è così?»

La ragazza, pallida e tesa, lo contemplò con occhi afflitti. Dove aveva sbagliato questa volta? Odiava i momenti in cui Blythe era di umore sarcastico, ovvero quasi tutto il tempo, perché sembrava che toccasse sempre a lei sopportarne il peso. Il fatto che fosse il membro più recente della redazione non avrebbe dovuto autorizzarlo a tiranneggiarla costantemente. Un giorno gli avrebbe spiegato nei minimi dettagli che cosa farsene del suo impiego e dei suoi commenti stizzosi. Non quella mattina, però. «Certo che lavoro per te, Antony.»

«Ah, proprio quanto credevo. Stupido da parte mia supporre altrimenti.» Appoggiò i gomiti sulla scrivania, sostenendosi il mento con le dita. «Allora perché, mi domando, stai dedicandoti a un secondo lavoro per qualcun altro?»

«Non capisco che cosa stai insinuando», rispose lei in tono rassegnato.

«Mi riferisco alle tue attività extracurricolari per Mister Schifezza.»

«Mister...»

«Joe Creed, Prunella. Quel sudicio personaggio cui ieri hai lasciato una busta.» La sua voce era salita di un paio di ottave, come stupefatta di fronte alla gravita del misfatto. «Era piena di vecchi ritagli di giornale su una creatura abietta che aveva un debole per fare a pezzi la gente e conservarne le parti. Te ne rammenti ora? Strano, quando io ti chiedo una ricerca infinitesimale, ti è necessario uno sforzo immenso per la maggior parte della giornata. Se invece il nostro amico Creed — scusa, il tuo amico Creed, per l'esattezza — ti fa una richiesta analoga, tu non hai nessuna difficoltà a procurargli buste letteralmente zeppe di dettagli, fotocopie e tutto quanto si possa umanamente desiderare.»

«Oh, Antony, mi ci sono voluti solo una ventina di minuti e me ne sono occupata durante l'intervallo per il pranzo.»

«Non mi interessa quando l'hai fatto. Quello che conta è che l'hai fatto. Tu», puntò un dito per accertarsi che non esistesse errore sul responsabile, «sei qui per servire me. Solo me, nessun altro. Non hai nessun dovere nei confronti di Dio, del nostro proprietario e neppure del nostro amatissimo direttore; in questo edificio sei mia, dolcezza. Mi chiedo se ti sia chiaro...»

«Non era poi così import...»

Lui si mise un dito davanti alle labbra per indurla a tacere. «Mi domando perché Creed volesse informazioni su questa specifica, ripugnante imitazione di un essere umano.»

«Come mai hai aperto la busta che avevo lasciato per Joe?»

Blythe sospirò. «Risparmiami l'indignazione. Questa è la redazione di un giornale e il nostro scopo è curiosare. Tra l'altro, qualsiasi cosa tu faccia in orario lavorativo rientra nella mia giurisdizione. Niente che riguardi il tuo impiego mi può essere nascosto, Prunella.»

Lei aprì la bocca per rispondere, poi ci ripensò: quell'odioso avrebbe comunque ignorato qualsiasi tentativo di difesa.

«Dunque, vorresti per cortesia spiegarmi perché Creed ti ha chiesto informazioni su Nicholas Mallik e qual è il legame con l'uomo fotografato al funerale di Lily Neverless?»

«Onestamente non lo so. Non mi ha detto niente.»

Lui la osservò freddamente. «Capisco. Non sei disposta a fornirmi i particolari.»

«No, non è così. Non ne so davvero nulla.»

«Forse sei sincera. Dopotutto, per quale motivo avrebbe dovuto confidarsi con te? Usarti sì, ma gratificarti della sua fiducia? Dubito che sarebbe stato tanto stupido.»

Agitò il dito nella sua direzione, e Prunella lottò contro l'impulso di colpirglielo. «Fortunatamente ti si presenta l'occasione di redimerti», dichiarò il cronista. «Scopri a che cosa si sta dedicando Creed e riferiscimelo. Nel frattempo, farò qualche ricerca per conto mio.»

Consultata un'agenda, Blythe prese il telefono. Con il ricevitore in pugno, guardò la ragazza come se si stesse chiedendo perché fosse ancora lì in piedi. La congedò con un ampio svolazzo della mano.

 

19

 

l'edificio si trovava in una stradina nei pressi della zona in cui era situato il mercato del pesce di Billingsgate prima che gli imprenditori edilizi, quei nemici della tradizione, vi posassero gli occhi ayidi. Creed lo oltrepassò in macchina, rallentando per ispezionare l'androne: si trattava di una vecchia costruzione, stretta e in mattoni rossi, incuneata incongruamente fra due palazzi in stile più tardo. Entrare fu come infilarsi in un'enorme caverna umida, dove l'odore stantio e la fredda eco dei passi congelavano i pensieri oltre che la carne.

Su una parete interna era appesa una bacheca sulla quale stavano affissi i nomi incompleti di alcune ditte, gli spazi vuoti sgradevoli come denti mancanti. Tuttavia, il nome che lui cercava spiccava per intero. liable & co. Controllò l'indirizzo sul biglietto: nessun errore. Settimo piano. Sperò che l'ascensore funzionasse.

Era un vetusto trabiccolo dalle porte scorrevoli di ferro; Joe premette il pulsante e il macchinario si attivò sferragliando. La cabina annunciò il proprio arrivo con pesanti scossoni e cigolii e, nell'attesa, Creed si guardò attorno nell'atrio piastrellato e dall'alto soffitto. Improvvisamente provò un forte desiderio di sole e animazione.

L'edificio appariva completamente vuoto e l'unico rumore oltre alle proteste dell'ascensore proveniva dall'esterno; il suono attutito di martelli pneumatici e di muri che crollavano risultava in un certo modo rassicurante.

Quando la cabina giunse al pianterreno con un ultimo sobbalzo, lui aprì a fatica il battente e se lo richiuse alle spalle, sentendosi come se si fosse deliberatamente imprigionato in una cella.

Premette il bottone per il settimo piano e il pericolante apparato si rimise in moto. Più in alto si spingeva, più oscuri diventavano i corridoi esterni.

Che cosa stava facendo? Doveva essere pazzo! Questa gente non era normale. Nessun individuo sano di mente avrebbe rapito un bambino solo per entrare in possesso di qualche foto. Avrebbero potuto ottenerle comunque. Sarebbe bastato chiedere cortesemente, anzi, soltanto chiedere.

L'ascensore si arrestò con un sobbalzo e lui sbirciò nel corridoio attraverso l'inferriata: la luce che filtrava da una finestra sporca all'estremità alleviava a malapena quel crepuscolo e l'impulso di ridiscendere fu fortissimo. Non hai scelta, rammentò a se stesso. Non puoi abbandonare Sammy proprio adesso. La vita del bambino poteva dipendere da lui. Parla con loro, consegna tutto quanto ed entrambi sarete liberi di tornare a casa. Ma sarebbe stato davvero così semplice? In cuor suo sapeva che le cose stavano diversamente.

Fece scorrere la porta metallica. Basta pensare, si disse. A quel punto bisognava andare avanti. Ormai era necessario agire, e riflettere serviva soltanto a indebolire la determinazione. Cominciò a canticchiare un motivo di cui non ricordava il titolo. Sul corridoio si affacciavano quattro porte, due per parte, e lui avanzò risoluto verso la più vicina. Lettere dorate ormai sbiadite gli indicarono che non si trattava di quella che stava cercando, ma lui provò ugualmente la maniglia. Chiuso a chiave.

Anche il battente sul lato opposto del corridoio era sbarrato.

La terza porta, un po' più avanti, non recava alcun nome, ma si aprì al suo tocco. Creed introdusse la testa.

La stanza era buia come il resto dell'edificio, perché le due finestre avevano le tende tirate. Si udiva il lieve ronzio del traffico proveniente dalla strada sette piani più in basso, però l'ufficio appariva morbosamente silenzioso come una tomba.

«C'è qualcuno?» chiamò.

Non fu troppo deluso quando non ricevette risposta. Spalancò il battente e mosse un passo esitante oltre la soglia. Era difficile distinguere l'arredamento del locale in quella penombra; riuscì vagamente a identificare alcune scaffalature, un mobile metallico, un divano e una scrivania. Ah, sì, un'ultima cosa: una figura seduta alla scrivania.

«Chiuda la porta», disse una voce bassa, molto bassa.

«È buio qui dentro.» Joe si rifiutò di allontanarsi troppo dalla soglia. «Meglio accendere una luce» Cercò un interruttore accanto allo stipite.

«Aspetti.» La figura si alzò, un contorno indistinguibile fra le ombre, e Creed arretrò, pronto a ruggire. La voce non apparteneva all'uomo che aveva incontrato al parco la notte prima e forse fu la curiosità, oltre al timore per la sorte del figlio, a trattenerlo sul posto. Il timbro era rauco, come quello del folle, e altrettanto profondo, ma diverso. Si accorse fino a che punto quando le tende vennero scostate e la luce del giorno filtrò dai vetri incrostati di sporcizia.

La donna era quasi in silhouette e il chiarore grigiastro delineava lunghi capelli scuri, le spalle e la rotondila di un'anca. Per un istante Joe credette di vedere Cally, ma naturalmente la voce e i capelli non erano gli stessi.»

«Chiuda la porta.»

Si trattava di un ordine cui non si sentiva incline a ubbidire. «Preferirei di no», rispose.